Esiste in russo “il paradosso della valigia senza manico”:
quando la valigia è impossibile da trasportare, ma abbandonarla ci è
impossibile. Impossibile perché nella valigia c’è tutta la vita: foto di
sorrisi, profumi, ricordi di viaggio, biglietti di concerti, lettere, dischi e
altre cianfrusaglie di inestimabile valore.
Mi trovo così. Ferma in mezzo ad una strada impolverata e
piena di macchine. Sola. Seduta sulla mia valigia. La mia valigia dove ho
accumulato con cura tutta la mia vita, dove ho investito la parte migliore di
me (piccola, ma era tutto quello che avevo). Valigia che era la mia casa, la
mia famiglia, quella che mi sarei portata ovunque, quella che conteneva il mio mondo. La valigia di cui andavo orgogliosa, che mostravo con fierezza, che
credevo robustissima. Il manico era scassato da tempo. Il tempo ha indebolito
il manico. L’ha usurato. Ho provato a ricucire, ma sono un disastro nel
cucito; mi sono solo riempita le dita di piccole chiazze di sangue. Appeso ormai
a dei fili, cercavo di trattenerlo con i denti. Poi si è staccato e mi è
rimasto in mano.
Piango, piango e piango. Sembra che sia morto qualcuno. L’ultimo
fiume così generoso, in effetti, l’ho generato solo in occasione di una morte. Dicono
che piangere sia liberatorio, ma a me viene solo mal di testa, sono esausta, ho
la nausea, fatico a respirare, mi brucia la faccia e non risolvo nulla.
Sono al buio.
Vorrei sbattere la testa contro un muro, sperando di
togliermi questa sensazione di dosso. Sembra che sia crollato un edificio
dentro di me e non trovo un posto sicuro per rifugiarmi.
Ciao, ho trentatré anni e non ho capito un cazzo.