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lunedì 5 giugno 2023

05.06.2023

Alla faccia dei buoni propositi.
Non è questione di tempo, è questione che non saprei nemmeno cosa dire.
Vorrei tanto poter fissare nella memoria questa mattina, ma poi, quando mi ci metto, le parole sembrano banali. Alcune cose proprio non ne hanno bisogno, nessun bisogno di definizione. Il mio bisogno è semplicemente quello di cristallizzare le sensazioni. Ho paura di addormentarmi e svegliarmi in un mondo dove il mio bimbo ha un tatuaggio in fronte, ascolta musica di merda e mi ignora.
Per questo, solo per questo, vorrei ricordarmi questa mattina. 
La pioggia contro i vetri. 
Il silenzio. 
I miagolii di nico che ha imparato a farsi la colazione self service e a sganciare il reggiseno per abbeverarsi senza nemmeno svegliarmi. 
Mangia con tutto il corpo, rannicchiato, caldo e profumoso, si aggancia con manine, piedini e bocca e mugugna soddisfatto, ancora un po' addormentato, tutto soffice con quei rotolini inaffrontabili. 
Sale il padre coinquilino che non si stanca di propormi di bere il caffè insieme, nonostante io rifiuti tutte le volte. Nico interrompe l'impegnatissima colazione per salutarlo con enormi sorrisi, gridolini e un piccolo discorsetto di bababa-mamama-aeee. Io poi mi metto il mio bimbolozzolo sulle ginocchia e constato nuovamente che è più del doppio di qualche mese fa, anche se più piccolo e più magro dei bambini della sua età. Di nuovo ripenso al fatto che questo qua è uscito dal mio apparato genitale e avverto ancora un gran mal di pheega al pensiero. Di nuovo ripenso al parto, a come pensavo fosse morto, alla pediatra che, dopo averlo visitato mi dice "eeh madre fumatrice" e mi pento di non averle detto "ma crepa, testa di cazzo" che mi hanno tenuta lì per dei giorni a soffrire come una cagna pur di non praticare un cesareo, mangia particole di merda. Sono passati più di otto mesi e ancora non riesco a superare questo senso di ingiustizia che mi piomba addosso ogni volta che ripenso al parto, ogni volta che penso a come siamo stati entrambi fortunati, perché abbiamo oggettivamente rischiato la vita e nico poteva venir fuori scemo o svergolo o entrambe le cose. Comunque, poi lo guardo e non sembra svergolo, scemo può ancora diventarlo, ma quella sarà una mia responsabilità. 
Procedo con una serie di coccoline al mio cosino, respiro profondamente e penso a quanto sono fortunata a vivere in un posto dove posso essere pagata per stare nel letto con mio figlio. Penso a quanto sono fortunata a non avere una guerra intorno a me, penso che per fortuna posso permettermi di dargli da mangiare, coprirlo dal freddo, portarlo in posti belli. Sono tutti pensieri banali e solo qualche tempo fa mi avrebbero fatto venire il latte alle ginocchia. Ma è proprio proprio vero che lo si riesce a capire a pieno, solo quando ci si immerge. Quando si capisce la fragilità della vita che si ha tra le mani, che non ha chiesto di esistere e che ha diritto ad un'infanzia priva di abusi, traumi e carenze alimentari. 
Faccio tutti questi pensieri così materni e così scontati, mentre cambio, lavo, asciugo, incremo, mordicchio, solletico e tormento il fanciullino.

Metto su gli Strokes.

Facciamo colazione. Io con cereali e latte, lui con melone e farina di grano saraceno. Va in scena il solito calvario delle mani nel piatto, la sbobba che viene spalmata su faccia, capelli e vestiti di entrambi. Sorridenti bestemmie della madre. Sorridenti bababa-mamama-aeee di nico (probabilmente sono bestemmie anche le sue, ma non lo sapremo mai).

Altro pisolino, la giostrina che canta una canzone georgiana, io che mi sbrodolo mentre piego mussoline e body, Nico che se la guarda per un po', poi comincia a reclamare le attenzioni della sua serva. Non so proprio come fare a smettere ad allattarlo: sembra l'unico modo per farlo dormire. Oltre a quello di portarlo in giro sui bolognini, ma sotto la pioggia mi diventa un po' incasinante...
Quindi, altro piccolo richiamino di latte e pisolino.
Io nel mentre mi sono guadagnata i miei dignitosissimi 20 euro per una traduzione. 
E ora vedo dei movimenti nel lettino.
Così
questo è un cristallo che mi vorrei tenere per sempre.
Ci sono un miliardo di cose che non vanno bene, ma sono così felice che a volte me ne dimentico.

lunedì 27 giugno 2022

68

Oggi è il giorno in cui mia mamma soleva preparare una grande torta con fragole fresche.

Era il giorno in cui si chiamava la Bulgaria e ci mettevamo ad urlare tutti insieme, senza ascoltarci, senza sentirci, ridendo di noi stessi, e brindando con vino freddo. 

La più squillante delle ragazze, la più irriverente del clan, oggi avrebbe compiuto 68 anni e avrebbe risposto al telefono tossendo e battendo le traduzioni con una mano sul suo scassato computer. Avrebbe spietatamente stroncato tutti i nostri auguri, invitandoci ad infilarli nei rispettivi ani e di darle finalmente dei nipoti, invece di cazzeggiare. 

Dove sei adesso che dovresti rompermi le palle da mattina a sera, agitandoti come un gabbiano affamato per ogni minchiata riguardante il bambino? Ti sembra giusto non esserci? Ti sembra giusto lasciarci soli? Chi ci sdrammatizza? Chi ci interrompe gracchiando? Chi ci insulta? Come faccio io a moltiplicarmi, se tu non sei lì a spiegarmela? Passano i mesi, gli anni, eppure io non riesco ancora a capire perché si debbano perdere le persone che servono per acquisirne di inutili. 

Vuoto.

Mi manca la casa.

Mi manca l'odore delle lunghe tende beige, dietro le quali mi piaceva nascondermi da piccola e immaginare di essere invisibile, mentre la casa si riempiva di voci di donne.

Mi manca vedere la casa dal basso, con sguardo di bambina, dove tutte le persone che amo erano vive, giovani e forti. 

Sembra di essere una gallina spennata. 

Senza forze.

Mi mancano le persone che sapevano darmi forza. 

Non voglio diventare grande.


martedì 21 giugno 2022

La Tradisiòn

Correva l'anno 2016, 31 dicembre.

Il giorno dopo partivo per la Georgia.

Avevamo bidonato tutti gli inviti per festeggiare il capodanno e ci aggiravamo per Verona con un'aria di completa estraneità al generalizzato spirito capodannesco. 

In piazza Bra c'era Jerry Calà e io ero infinitamente orgogliosa del fatto che non ce ne fregasse un cazzo di feste, che ci bastavamo, che non serviva niente per essere felici.

Siamo passati in questo baretto dove andavamo spesso, quando eravamo a Verona. Ci siamo fatti un paio di grandi spritz e avevo la netta sensazione di essere completamente isolata dai rumori, dalle risate, dal freddo. Bolla. Bello. 

Torno di nuovo in questo baretto, si chiama la Tradisiòn. Mi fa ridere. Io, che ho sempre sognato di creare delle tradizioni, io che ne ho sempre avuto un disperato bisogno, io che poi arrivo ad oggi che sembro una tillandsia senza radici, senza un punto fermo. Entro. Mi appoggio. Apro il libro. Guardo esattamente quel tavolino e penso che, questa volta, ci porto un altro ragazzo, il ragazzo che ho nella pancia, anche lui nella sua bolla, anche noi isolati dal resto del mondo. Solo noi e un libro e questa perenne sensazione di vivere dietro un vetro. 

Il bar è molto bello, lo consiglio sempre a chi è in centro e vorrebbe piazzarsi in un limbo tra il locale fighetta e la delocalizzazione cinese. 

La barista è molto bella. Le ho chiesto un succo al pomodoro con tabasco rinforzato per mimetizzare l'assenza di vodka e mi sono guadagnata una giornata di gastrite acuta e defecazione infuocata. Mio figlio danzava sulle braci. Faceva caldo e io continuavo a vivere con questa sottilissima nostalgia luminosa. 

Scrivimi, quando arrivi. 



giovedì 9 giugno 2022

occupazione russa everywhere

Tutti, o quasi, mi ridevano in faccia, domandandomi che cazzo di senso abbia andare a fare il ponte in un posto che posso raggiungere in un'ora di macchina, un posto, tra l'altro, da nonnetti, senza nessun tipo di attrazione, tranne quattro pini e qualche casupola.

E più mi ridevano e più io m'impuntavo. 

Armo il mio canarino con un serbatoio pieno d'oro nero e parto.

Ho prenotato e cancellato la prenotazione 3 volte prima di riuscire ad arrivarci. 
Avevo ormai una fitta corrispondenza con l'hotel e mi sembrava quasi un dovere andarci.

Sbarco quindi nella località di F e l'albergo mi accoglie con la scritta CUCINA ANCHE RUSSA... e già sto male e mi domando per quale motivo poteva sembrarmi un dovere andare in un posto del genere.
Penso anche che "audaci i gestori, minchiadigesubambino!"
Penso anche che, probabilmente, il gestore è un morto di figa a cui una qualche scadente matrioska (perché quelle belle di certo non finiscono nella località di F.) ha fatto vedere un pezzettino di organo riproduttivo ed ora si sente in dovere di perorare il putinismo. 
Ho i coglioni in giostra, ma ormai sono lì, ho prenotato, sono stanca, ho bisogno di un bagno, ho bisogno di cibare il mio piccolo parassita e, soprattutto, non posso tornare sui miei passi girando i tacchi e dichiarando il mio disappunto a tutti coloro che mi ridevano in faccia. 

Entro e scopro che la realtà supera la mia malvagia fantasia: l'albergo non è di un coglione filorusso, l'albergo è di proprietà di russi
Una georgiana russofoba, va a farsi un ponte nello sperduto paesino di F. e capita in un albergo di russi.
Mi sembra un ottimo incipit per un noir. 
Mando giù il grumo di merda che mi si è inevitabilmente formato in gola e decido di coesistere con questa situazione surreale... tant'è che il proprietario comincia a fare il lumacone con me.
Deduco quindi che anche da piena si può rimorchiare. La cosa mi fa decisamente ribrezzo, ma i fatti bisogna pur constatarli. Il padre di mio figlio sostiene che devo aver fatto pena al gestore: povera, piccola, sola e incinta, così ha incluso nel pacchetto un po' di flirt per farmi sentire a mio agio. Dubito che un uomo eterosessuale possa disporre di tanta sottigliezza (tranne chiaramente il padre di mio figlio che non perde occasione per farmi sentire come una confezione ammaccata di pelati scontati al discount). 
Il gestore, chiamiamolo Tovarish E, si atteggia un po' da bohémien, con gesti scenici, tutto sorrisi, gentilezza e sguardi languidi. Ci tiene molto a sottolineare che è lui il proprietario della baracca, probabilmente per impressionarmi. Mi costa una fatica infinita cercare di nascondere il mio naturale odio arricchito di schifo per questo suo appiccicoso flirt da romanticone dannato. Sorrido educatamente, taglio le frasi e cerco di minimizzare il contatto. 

Devo però dar da mangiare al botolo. 
Mi siedo.
Decido di fare un passo verso il pacifismo ed esplorare la cucina ANCHE RUSSA.
La proposta gourmet comprende un unico piatto, i pelmeni, che tra l'altro non sono nemmeno russi ma ucraini di origine. Molto presto, scopriremo che anche il vino l'hanno inventato loro. 
I pelmeni sono dei raviolini di pasta sottile ripieni di carne macinata con cipolle ed erbette. Si servono con pepe nero e panna acida in dei piccoli vasetti di terracotta. 
Considerando però che mi trovo in questo albergo con ambizioni raffinate, mi portano i pelmeni su di uno stretto piattino rettangolare, molto fusion e scomodo come un tacco a spillo sullo sterrato. Chiedo di avere del pepe nero, al che Tovarish E mi guarda con quel suo sguardo umido, posizionandosi di tre quarti per maggiore effetto scenico e mi domanda: "o forse un po' di curry?". Ma povero stronzo! Chemminchia c'entra il curry (che probabilmente è una spezia considerata tipicamente russa) con i pelmeni e la panna acida, per l'amor di Cristo? Spalanco i miei grandi occhi e con un sorriso di plastica insisto per avere del pepe nero. Impegnati un po' di più per impressionarmi con proposte esotiche, coglione!

Ora mi propone del vino da accompagnare alla cena. 
Sorrido in silenzio, dando stupidamente per scontato che sia logico non ubriacarsi in gravidanza. 
Abbassa lo sguardo sul loft che si è fatto mio figlio dentro di me, ritorna a penetrarmi con lo sguardo, uscendosene con: "da quando sono arrivato in Italia, ho scoperto che qua le donne bevono tranquillamente anche in gravidanza". Respiro profondamente, ributto indietro nella memoria le mostruose percentuali di sindrome da feto alcolico che arrivavano dagli orfanotrofi russi. Sorrido educatamente e accetto un calice di vino, perché se non avessi bevuto in quel momento, probabilmente avrei dovuto passare all'autolesionismo per sfogare lo sgomento.  QUA! QUA LE DONNE BEVONO TRANQUILLAMENTE! Ma io ti prendo a scarpate in bocca! Non che abbia particolarmente a cuore la moralità delle italiane, per l'amor dell'ostia, ma un così palese rovesciamento dei fatti mi massacra. D'altronde, niente di nuovo: i russi devono averla nel sangue questa capacità di commettere crimini e poi accusarne gli altri. 


Incasso.
Nutro il figlio.
Mi concedo un bicchiere di vino.
Mi ficco sotto la doccia calda. 
Faccio degli esercizi di respirazione nel letto.
Medito. 

Sono riuscita a portarmi a casa i miei quattro giorni senza sclerare. 
Sono riuscita, anzi, a prendermi gioco della situazione.
Mi sono sentita molto adulta.

Adulta, ma rincoglionita. 

Il giorno dopo la partenza, Tovarish E mi telefona comunicandomi che ho lasciato delle mutande in un cassetto.

Voglio sprofondare.

Lo dice con quel suo languido tono di voce, facendomi intendere che ha captato il messaggio. Che poi, fossero chissà che mutande, ma sono dei triangoli di cotone nero. L'unico messaggio che potevano contenere poteva essere tipo "fatti un giro da Intimissimi, perdio". 

Mi propone di vederci a valle per passarmi il prezioso souvenir. 

Vorrei dirgli di buttare via le mutande e cancellare il mio numero, ma visto che sono adulta e superiore a queste sciocchezze, declino educatamente l'invito e gli prometto di andare su io a bere un caffè, prima o poi...

Chiudo e vado in bagno a lavarmi la faccia.

Devo imparare a debellare questo ribrezzo dalla mia personalità, dovrei provare ad incanalare la cosa su un'aracnofobia o qualcosa di simile. 
Vivrei sicuramente meglio.





martedì 17 maggio 2022

LB

Arriva la madre e porta le lettere della nonna.
E' l'ultima persona al mondo che mi scrive le lettere a mano, su fogli strappati dai nostri quaderni di scuola non finiti. 
E' uno dei miei momenti preferiti: metterci lì in tre a leggere le lettere ad alta voce e rotolarci dalle risate.
Vorrei poter tradurre le sue lettere, ma temo che sarei incapace di trasmetterne lo stile.
Si compongono di brevi frasi di senso compiuto, ma senza un nesso tra di loro. Una specie di Virginia Woolf sintetica. Un flusso di coscienza saltellante. Un unico paragrafo contiene notizie sui vicini di casa, ricordi di settant'anni fa, notizie dal mondo dello spettacolo, consigli pratici sulla gestione delle nostre sgangherate vite e barzellette sugli ebrei che fanno ridere solo lei. 
E' tutt'ora convinta che le sue lettere rimangano tra lei e il mittente, quindi non sa che io e mio fratello le confrontiamo per fare a gara di chi riceve gossip più scottanti e commenti più caustici. 
C'era solo una differenza tra le due lettere, questa volta.
Quella di mio fratello terminava con: probabilmente è l'ultima lettera che ti mando.
La straziante essenza di questa donna si riassume nel suo stile epistolare: didascalico, scarno, tagliente, buffo, comico e drammatico allo stesso tempo.

Ha deciso di morire, con limpida determinazione. L'ha pure messo per iscritto.

Mi lascia all'oscuro perché, adesso, per la prima volta in 35 anni, io sono quella da proteggere. 

Credevo fosse immortale, ma ieri, per la prima volta, ho avuto paura di non ricevere più le sue lettere e mi sono chiesta se esista qualcosa al mondo di più prezioso del tempo che posso ancora passare con lei. 

Odio dover lavorare, non perché sono pigra, ma perché il lavoro mi sta rubando la vita, il tempo per curare chi amo. 


lunedì 16 maggio 2022

Il sale della vita

 Si ride. Le risate salvano la mia famiglia da tempo immemore. Mi piace pensare che, anche i miei antenati si sganasciavano in Persia. Ridiamo in faccia alla morte, alle guerre, alla fame, alla nostalgia, alle assenze. Grasse, liberatorie, ciniche, taglienti risate. Ci amiamo insultandoci e prendendoci in giro. Non tutti lo capiscono. Ferisco un sacco di persone con la mia strana maniera di amarle. Non so esprimere l’affetto, se non attraverso gli insulti. Mi sento amata, quando presa per il culo e mi sento a disagio, quando mi si elogia. Siamo sempre stati parchi con la verbalizzazione. Sembra quasi di aver paura di dire “darei tutto per te”, sembra che qualcosa possa rompersi, se lo si dice. E le poche volte che si dicono cose belle, queste risultano scarne e gravi. Lo si fa solo in occasioni tragiche. Siamo una tribù di coriacei, le robe da froci non ci appartengono, eppure siamo mille volte più froci, fragili, vulnerabili e sanguinanti di quelli che sanno ammettere le proprie debolezze e i propri amori. Preferisco un morso ad un bacio. Preferisco un abbraccio al limite della frattura di costole, ad un ti amo. È sbagliato. Non deve essere così, non ne vado orgogliosa. Traggo la gente in inganno. Pensano che io non abbia bisogno di protezione, affetto e cura. Respingo l’affetto e poi ne ho un bisogno atroce. Ci vorrebbe un Nobel in strizzatura cerebrale per sciogliere i miei nodi. O forse mi sembra solo di essere complicata. Probabilmente sono semplicemente una ragazzina mediocre con dei traumi mediocri e con limitate risorse emotive per guarirli.

La mia tribù mi manca da strapparmi la carne e non sono capace di dirlo. Sono solo capace di dire “ma perché non ti anneghi nel cesso, perdio?”
Morirò senza aver detto quanto ho amato. E ho questa paura enorme di essere l’ultima a morire. La sento come una maledizione. Gesoo mi punirà per le mie spine e mi costringerà a perdere tutti, prima di chiamarmi a sé.
Il sale della vita, eh?

mercoledì 11 maggio 2022

sta su, bella fiera!

E' passato un anno dal mio ultimo triste viaggio a casa. 

Ho ancora in mente il momento in cui siamo salite da mia nonna per dirle che la sua bambina è morta.  

Triste, ma anche molto bello. La condivisione del dolore riempie di forza, di senso di responsabilità: sapevo che non potevo crollare, sapevo che dovevo farle ridere, sapevo che anche solo la mia presenza era sufficiente per tenere insieme i pezzi.

Mi manca un sacco la sensazione di interezza che avverto quando sono a casa.

Sono andata via 20 anni fa e tutt'ora quella è la mia casa e tutt'ora penso che quello sia il mio posto e tutt'ora soffro per la lontananza, ogni giorno. 

Nessuno dei miei sogni si è realizzato. 

Nemmeno quello di trovare un meccanismo per riuscire a vivere un po' qua e un po' là, senza dover per forza rinunciare a una parte della mia esistenza. 

Ora sono completamente bloccata. 

Ora un estraneo può decidere se andrò o meno a casa, quando lo farò e per quanto tempo.

E' orribile. 

Mi addormento tutte le sere, avvolgendomi attorno alla mia pancia e immaginandomi a casa. In una casa dove mi vogliono bene, dove mi aspettano, dove vado bene così come sono, dove non mi sento fuori luogo. 

Chissà se riuscirò a reggere senza impazzire?

martedì 22 giugno 2021

paure da far volare via

Il giorno più lungo dell’anno.

Lungo eterno.

Martedì è il giorno più insopportabile della settimana.

Ogni martedì è un cazzo di solstizio, non finisce mai. Si ha davanti ancora tutta una settimana di porchidii, di ufficio grigio, di gente ipocrita, di produrre-lavorare-subire.

C’è una luce fantastica adesso, hai visto? Quella che inonda d’oro alberi, case e macchine. Mi mandi una foto di quello che vedi? Io sono a Palazzina, mi hanno anche tagliato la palma da sotto il poggiolo.

Paure da far volare via.

Se facessi volare via le paure, non rimarrebbe nulla di me. Volerei in un inceneritore. Evaporerei insieme alle mie paure, perché è della loro sostanza che sono fatta, altro che stelle, sogni o sa il cazzo quale altra trovata pubblicitaria. Io sono fatta di paure.

Paura dei volatili

Paura di perdere le persone

Paura di deludere le persone

Paura di non essere all’altezza

Paura di sprecare il tempo

Paura di non essere utile a nessuno

Paura di infastidire

Paura di immettermi in autostrada

Paura di dire quello che penso davvero

Paura di fare quello che vorrei fare davvero

A forza di aver paura, ho smesso di volere.

Mi sono svuotata di sogni e speranze.

Perdo il contatto, sento le voci distanti, non sento.

Sono nel mezzo del cammino, che però più che un cammino è un girare in cerchio, senza mai riuscire a spezzarlo. Paura di spezzare il cerchio. Un disagio che diventa confortevole.

Vorrei prendere tutte queste paure, incenerirle insieme a lei, mettermi il mucchietto sul palmo della mano e soffiare forte. Far volare via tutto. Smettere di aver paura. Liberarmi dai demoni, assorbire questa torbida luce infinita.

L’unico posto in cui non ho paura è questo mio piccolo cubicolo sgangherato. Il mio cerchio magico protetto. The magic circle. Fino a qualche anno fa era il mio letto a casa. Ora non c’è più il letto e la casa è diventata un fantasma. Svuotata, screpolata, impregnata di odore d’urina stantia. Il mio spazio sicuro è scomparso. Ora è qui. In questa squallida periferia cementificata, in mezzo a sconosciuti, riconosco solo l’abbraccio del mio appartamento. È così difficile comprendere questo bisogno di casa? Si vede di sì. Il desiderio di mantenere le proprie posizioni è sicuramente più importante del bisogno di creare un luogo sicuro per un’altra persona. È giusto così. È più sano così. Prima di tutto i propri bisogni.

Stupida

Stupida

Stupida

Prima i tuoi bisogni e poi il resto…

È così che deve essere, perché io non ci riesco?




"Per quanto con l'abitudine avesse imparato a memoria i contorni della casa ormai da tempo, la rassicurava comunque sentire il pavimento sotto i piedi mentre si muoveva da una stanza all'altra, sapere che la casa era una realtà precisa, con tante sfaccettature, anche se lei vedeva tutto come se fosse sott'acqua a occhi aperti. Quando si era accora di avere la vista offuscata era stato quello il suo primo pensiero, di avere un eccesso d'acqua negli occhi: lacrime, forse. Erano cose che succedevano ai vecchi. Il giorno dopo, al suo risveglio, era ancora lì: una membrana acquosa. Impaurita, si era rifiutata di accettarlo. Aveva pregato e aspettato, finché una mattina si era svegliata e le cose avevano perso i loto contorni. Era annegata. Ma-mee andò in cucina strascicando i piedi, un po' come se pattinasse: moquette, legno del corridoio, moquette ruvida del soggiorno, le piastrelle irregolari della cucina."

La linea del sangue

JW

mercoledì 31 agosto 2016

infinita fiducia nell'umanità.

Sono anni che penso di incidere una traccia che parta in automatico quando mi presento alla gente.
La farei partire subito dopo la stretta di mano per poter saltare la caduta dei coglioni iniziale con le domande del cazzo tipo
“ma davvero non sei italiana? Cavolo non l’avrei mai detto, non hai proprio nessun accento”
“Georgia? Russia? Ah no, non Russia, giusto giusto”
“ma davvero hai 29 anni? Te ne davo al massimo 20”
“sei venuta qua tutta sola a 15 anni? Ma pensa che coraggio”
“e com’è vivere con tuo fratello?”
“e non ti manca la tua casa?”
“si sta meglio qua o in Georgia?”
“torni ogni tanto in Georgia”
“è bella la Georgia?”
"ricordami la capitale che non me la ricordo mai" - seeeeh non te la ricordi mai, caprone di un coglionazzo
“ma che lingua parlate? Georgiano? Cos’è tipo russo? Ah addirittura una scrittura diversa” – a questo punto  si tira fuori il telefono e si mostra l’alfabeto per dare più peso all’affermazione, per poi rendersi conto che l’interlocutore non vede differenza alcuna tra georgiano, cirillico e sanscrito.
“e come mai hai scelto proprio l’Italia?” – questi gli scettici sempre pronti a sputare nel proprio piatto
“ma pensi di tornare in Georgia o starai qui per sempre?” – detta con un leggero terrore nello sguardo, consapevole che il Bel Paese è invaso da parassiti
Registrerei delle risposte gentili e le farei andare stampandomi un bel sorriso di plastica in faccia mentre la traccia avanza.

Quanto vorrei vivere in una società in cui rispondere alle domande di merda a suon di schiaffi non sia perseguibile dalla legge

mercoledì 1 giugno 2016

il primo giugno dell'anno bisesto

Siedo piena di doni. è un mercoledì prima di quattro giorni di lunghe dormite e risvegli pieni di lunghi stiracchiamenti nel letto e lunghe letture nel sole. Un montatore mi ha portato delle bocche di leone. Una commerciale mi ha portato tre rose che profumano come la bulgaria. Un ragioniere mi ha portato mirtilli e lamponi e un altro ragioniere 7 ciliegie mature. amata e coccolata. Ho un moroso bellissimo e spettacolare e va tutto in una maniera spaventosamente bella.

Ma poi arriva il corvo dalle ali nere e mi porta via tutto il bello che ho. E mi arrabbio perché qualcuno, un paio di ali nere mi possono portare via tutto il bello che ho. Tutto l’amore che mi circonda e tutto l’amore che ho dentro. Me lo portano via con le migliori intenzioni... sto cercando un algoritmo che mi aiuti a risolvere questa situazione, ma non lo trovo. L’unica soluzione è quella del fu mattia pascal: fingersi morta e ricominciare a vivere sotto mentite spoglie. Inizio le giornate piangendo. Un po’ di gioia e un po’ di merda ma alla fine la domanda resta sempre… e io devo rispondere e devo rispondere in fretta e ho rabbia e paura e ogni tanto vorrei spararmi in bocca ed è una cosa contrastante e però non è bello essere felici ed essere costretti ad essere invece infelici e dover per forza piegarsi alle ali del corvo. Perdincibacco. 

giovedì 5 maggio 2016

La Georgia è un altro mondo: la gente è più bella, il vino più rosso e le montagne più alte...


Nel settembre del 1899 il grande scrittore norvegese Knut Hamsun viaggiò per la prima volta nei suoi 40 anni. Si diresse nel Caucaso, attraverso la Russia. È possibile che questo fosse il suo viaggio di nozze, in quanto lo scrittore portò con sé anche la giovane moglie Bergljot Bech. Il risultato del viaggio fu il libro pubblicato nel 1903 “Viaggio nel Caucaso”.


Knut Hamsun, insieme alla compagna, arrivò a San Pietroburgo dalla Finlandia e partì la stessa sera in treno per Mosca. Il suo soggiorno fu breve anche qui: il giorno successivo, lo scrittore partì in treno per l’itinerario Mosca – Voronezh – Rostov-na-Donu – Armavir – Pyatigorsk – Vladikavkaz. Giunto nella “città-fortezza russa che possiede il Caucaso”, lo scrittore si spostò a Tiflis su una carrozza con quattro cavalli, passando in viaggio tre notti.

Ecco come descrive Knut Hamsun il suo incontro con il Monte Kazbeg: “All’improvviso, dietro una curva stretta a destra, si apre la valle e ci si para davanti, vicinissimo, il Kazbeg con i suoi ghiacci scintillanti al sole. Ci colpisce con la sua potenza – alto, terribile, silente. Siamo permeati da una sensazione irripetibile che ci stringe lo stomaco: il Kazbeg, come un essere dell’altro mondo, si innalza circondato da montagne che gli giurano fedeltà, e ci guarda. Scendo sgraziatamente dalla carrozza, la aggiro e tenendomi stretta ad essa, guardo il Kazbek. Mi gira la testa, mi sembra di essere sollevato da terra, sopra la strada, e mi trovo faccia a faccia con Dio”.
Quando si trova nel villaggio di Kobi, incantato dalla natura circostante, lo scrittore riflette su Dio e la Sua creazione. “Seduto a terra, guardo il cielo, e siccome io, a differenza di molti, non ho ancora chiarito il mio rapporto con Dio, mi immergo per un po’ nelle riflessioni su Dio e la Sua creazione. Questo mondo magico ed incatenvole, questo antico luogo di esilio dove sono capitato, si è rivelato il posto più sorprendente al mondo”.
Per tutto il viaggio, Knut Hamsun non smette di stupirsi della natura e si pone domande retoriche come: chi sta meglio? Gli europei, gli yankee od i caucasici?
La luna illumina già parecchio, anche se sono solo le cinque del pomeriggio, il sole e la luna brillano contemporaneamente dai cieli ed è abbastanza caldo. Questo mondo non somiglia a nessuno tra quelli visti prima e torno a pensare che potrei vivere qua tutta la vita. Siamo già scesi così tanto a valle che sono ricominciati i vigneti, nel bosco cresce il noce, il sole e la luna brillano contemporaneamente, sfidandosi a vicenda. La magnificenza della natura domina l’uomo; anche quelli che vivono qua ed osservano da sempre questo splendore, non smettono mai di stupirsene… un caucasico non conosce fallimenti ed ascensioni del tasso di cambio della borsa di New York, la sua vita non assomiglia alle corse dell’ippodromo, esso vive senza fretta, si nutre dei frutti della natura o della carne di montone. È concepibile sostenere che gli europei o gli yankee siano superiori ai caucasici? Dio solo lo sa: è talmente discutibile che nessuno, tranne Dio, può rispondere a questa domanda.”









Durante il viaggio, lo scrittore si concentra sui villaggi georgiani. “Ogni villaggio presenta un complesso di case fuse l’una con l’altra, erte una sopra l’altra, plasmate sul pendio”. Lo scrittore freme alla vista di rocce scoscese ed abissi senza fondo. Knut Hamsun descrisse il momento in cui, su uno dei tratti più pericolosi della strada, comparvero, di sotto terra, due pargoletti di 6 od 8 anni ed iniziarono a carolare e svoltolarsi. Con incomparabile impertinenza facevano capriole sull’orlo della strada, eseguendo una danza della morte. “Non mi restava altro che metter mano alla borsa e pagarli”.

Ci stiamo avvicinando a Tiflis. La strada costeggia il Kura. Il Kura è maestoso e sublime… in lontananza compare Tiflis: è un insieme di puntini alla rinfusa, un mondo a sé. Sopra la città pende la caligine. Eccolo, Tiflis, la città di cui scrissero molti poeti russi, la città presente in molti romanzi russi. Mi sento improvvisamente giovane, mi guardo intorno con stupore e sento quanto è forte il battito del mio cuore. Provai qualcosa di simile la prima volta che attendevo la lezione di Georg Brandes. Teneva una lezione all’università di Copenaghen. Aspettammo per un tempo infinito per strada, sotto la pioggia, affollandoci intorno al portone chiuso… ma ecco aprirsi le porte e corriamo su per le scale, per il corridoio, in aula dove mi trovo un posto. Aspettiamo ancora a lungo, l’aula si riempie, brulicando di mille voci. All’improvviso l’atmosfera si placa, lasciando spazio al regno di un silenzio di tomba. Sentì i battiti del mio cuore. Finalmente Lui salì sulla cattedra...”




Ecco quanto riferiva di Tiflis ai suoi lettori norvegesi:
La città conta cento sessantamila abitanti, di cui gli uomini sono il doppio delle donne. Qui si parlano settanta lingue… Tiflis subì il dominio di romani, persiani e turchi, ora è sotto i russi. La prosperità degli ultimi anni è dovuta alla conveniente posizione geografica: la città sorge sull’incrocio di vie commerciali che attraversano le montagne e collegano il mar Caspio con il Mar Nero, la Russia e l’Armenia. Nella città vi è un eccellente museo, teatro, raccolta di pittura, giardino botanico, fortezza… mentre sopra la città si erge il monastero di San Davit. Situato su un monte sacro per i georgiani – il Mtatsminda. Il monastero ospita la tomba di Griboedov”.


Knut Hamsun: “La città non si è rivelata molto interessante. Tornammo però in uno dei cantucci più e più volte ammirandolo infinitamente – era il quartiere asiatico. A Tiflis, c’erano negozi con vetrine a grandi specchi, tram a cavalli, teatri-varietà, dame e signori vestiti all’europea, ma nel quartiere asiatico tutto era differente: anche le strade qui non sono strade ma vicoli, passaggi incapestrati, scalette che portano da una casa all’altra, in su e in giù.

Nelle botteghe commerciano rappresentanti di ogni specie e popolo e vendevano oggetti più sorprendenti… Circondati da asini, cavalli e cani, gli artigiani lavorano per strada, i fabbri arroventano il ferro in piccoli fornelli battendolo su piccole incudini. Orefici e argentieri levigano, niellano, cesellano e incidono i loro manufatti, li decorano con turchesi ed altre pietre. I sarti confezionano lunghe palandre di feltro su macchine da cucire importate dall’Occidente… Nelle botteghe si vendono principalmente tessuti di seta, ricami, tappeti, armi e gioielli… qua e là, nelle minuscole botteghe, siedono scrivani trascrivendo su richiesta…
Scorre silenziosamente la vita del quartiere asiatico, lontana dal resto del mondo. Qui regna il silenzio, mentre tutto intorno si sente il chiasso della città mercantile, come se là fuori ci fosse l’America. È raro sentire qua una parola detta ad alta voce, raramente si sente un urlo inutile. Solo voci basse, discreti cenni con i turbanti e null’altro. Nel quartiere asiatico quasi non ci sono donne, è molto raro vedere due donne conversare con i bambini in braccio, e anche loro parlano a voce molto bassa. Gli armeni costituiscono un’eccezione nelle loro botteghe: loro lodano ad alta voce le loro armi e mentono apertamente ai compratori sia qua che in qualsiasi altro posto. Un ebreo può imbrogliare dieci greci, ma un armeno ingannerà dieci greci e dieci ebrei...”
Da Tiflis, Knut Hamsun si diresse a Baku e successivamente pianificava un viaggio in Oriente, in Persia. Una lettera di accredito francese però, che lo scrittore teneva in tasca, cambiò drasticamente i piani del viaggiatore. Presso le banche di Baku non emisero denaro dietro tale documento, dicendo di non aver mai visto prima di allora delle carte simili. Hamsun si vide costretto a tornare a Tiflis, dove le banche lavoravano con lettere di accredito francesi. Prelevato il denaro a Tiflis, decise però di partire per Batumi, sul Mar Nero, invece di andare in Persia.
Ecco, come vide lo scrittore la città portuale:

"Batum conta quaranta mila abitanti, forse pochi più. Alla vista ricorda in parte sia Tiflis che Baku – grandi edifici moderni di pietra si alternano a piccole e buffe costruzioni di pietra, rimaste dai tempi dei turchi. Le strade sono larghe, ma non lastricate, qua si cammina e si viaggia direttamente sulla sabbia. Al porto si trovano infinite navi, dai piccoli velieri, arrivati fin qui dalle città del sud o addirittura dalla Turchia, fino alle grandi navi da passeggeri europee provenienti da Alessandria o Marsiglia…

La vita di Batum è in qualche modo simile alla vita degli stati a sud degli Stati Uniti. Il ristorante, gli alberghi sono frequentati da un pubblico vestito all’europea, in seta e diamanti. Ordinano piatti raffinati e bevono champagne… Le maniere da americani degli stati del sud si manifestano particolarmente al momento del saldo. Amano pagare con le più grosse banconote, che sia necessario o meno, costringendo i camerieri di chiedere il resto al proprietario. Lasciano mance consistenti. E lasciano il vino in calici e rosoliere...
A Batum vi è anche un lungomare alberato. La sera è pieno di carrozze e persone a passeggio. Si trovano qua cavalli pieni d’ardenza, fruscio della seta, e ombrelli, e sorrisi, e saluti: tutto uguale ad una qualsiasi città degli Stati del sud. Si trovano anche qua bellimbusti, damerini con alti colletti simili a polsini, camicie di seta ricamate, cappelli sulle ventitre e bastoni grossi come il braccio… non è l’alterigia a farli vestire così, semplicemente anche loro desiderano farsi notare e sceglono questo metodo puramente estetico, il quale aiuta a raggiungere in fretta lo scopo e non richiede grandi sforzi. Il cappello può rendere famoso un uomo molto più in fretta di quanto non lo faccia un libro od un quadro. È quello che fanno i francesi, e perché non dovrebbero?”

L’autore termina così i suoi appunti di viaggio “La Terra Favolosa” : “Domani partiamo di nuovo per Baku, da lì proseguiamo per l’Oriente. Tra poco ci separeremo da questo regno, ma sarò sempre attratto da questo posto, perché ho bevuto l’acqua del Kura”. In realtà Knut Hamson non tornò a Baku, non andò mai in Oriente. Attraversò il Mar Nero su un battello, superò lo stretto del Bosforo e giunse a Costantinopoli.
In capo ad un anno dopo il viaggio nel Caucaso, Knut Hamsun, scriverà in una lettera indirizzata alla poetessa norvegese Dagni Kristensen: “...Non rivivrò mai più una favola di cotanta meraviglia e superbia, specialmente fiabesco è stato il viaggio da Vladikavkaz a Tiflis attraverso le montagne… E’ un mondo diverso, la gente è più bella, il vino più rosso e le montagne più alte. E credo che Dio alberghi sul Kazbeg tutto l’anno...”
Nella lettera all’amico ed editore Albert Langen, scriveva: “...Attualmente, il libro che più mi rende felice è “Il Libro del Caucaso”, che sarà il migliore tra tutto quello che ho fin’ora scritto”. Il romanzo migliore dello scrittore diventerà però “I Frutti della Terra”, pubblicato nel 1917 e premiato con il Nobel nel 1920.
Il libro “La Terra Favolosa” fu pubblicato nel 1903, nello stesso anno, Knut Hamsun pubblicò il dramma amoroso “La Regina Tamara”, scritto sotto l’impressione del viaggio in Georgia. L’opera fu rappresentata nel 1904 al Teatro Nazionale di Oslo, anche se non riscosse particolare successo, nonostante la musica per la rappresentazione fosse stata composta dal famoso compositore norvegese Johan Halvorsen.

Cento anni dopo il viaggio di Knut Hamsun in Russia e nel Caucaso, due giornalisti norvegesi, Bjørn Rudborg ed Ule Peter Ferland, hanno ripercorso le tracce dello scrittore provando a ritrovare “questo fiabesco regno”. E lo hanno scoperto, narrandone nei loro appunti di viaggio "Nella Terra FavolosaCent’anni Dopo”. “Non abbiamo bevuto l’acqua del Terek, Aragvi o Kura, - scrivono Bjørn Rudborg ed Ule Peter Ferland – ma saremo sempre determinati a tornare qua. Il Caucaso è una fiaba, è inimitabile e brutale!"






Fonte: http://www.geomigrant.com/
Foto: Knut Hamsun

giovedì 31 marzo 2016

rose e rosari

Per me è quasi scontato che la gente capisca con un solo sguardo che sono profondamente atea e soprattutto furiosamente incazzata con le religioni istituzionalizzate, che sogno la distruzione totale della chiesa cattolica, non sopporto i cattolici, non sopporto i valori cattolici, non sopporto il perbenismo cristiano e in sostanza odio tutti. A me la cosa sembra scontata, mentre, a quanto pare, per il resto delle persone non lo è.
In effetti traggo anche un po' in inganno.
Oggi, ad esempio, sul collo mi ciondola un medaglione con una croce stilizzata in smalto. E' un regalo. Un regalo molto importante per me, realizzato a mano dai ragazzi di strada di un centro di recupero in Georgia. Fatto da ragazzi che ho visto crescere, con cui sono cresciuta. Poteva anche essere una svastica, probabilmente me lo farei comunque ciondolare dal collo periodicamente.
A proposito di svastiche, ho da tempo sviluppato un pensiero parallelo rispetto alle croci. Nel senso che se a me la croce fa nausea nella sua simbologia, per quello che rappresenta, per i danni che ha causato, per lo schifo che fa, per la strumentalizzazione lunga secoli, per le crociate, l'inquisizione, l'umiliazione, gli indios, l'Africa che viene indottrinata per non usare preservativi e morire di aids, per la pedofilia, il riciclaggio di denaro, per costrizioni ortodosse, per aver sventrato, rovesciato, rincoglionito i vangeli, per non praticare quello che predicano, per tutto questo e molto altro, per me la croce è uguale alla svastica... perché se la svastica nella sua simbologia induista/buddhista è un simbolo positivo, smerdato poi dal nazismo, anche la croce è un simbolo positivo di base, ma totalmente smerdato dalle varie correnti del cristianesimo.
Autoassoluzione quindi nel portare la croce nonostante il totale rinnego del cristianesimo: la croce è un bel simbolo, in fondo.
Avevo una compagna all'università che portava imperterrita una borsa (di quelle di stoffa da bancarelle che noi della facoltà di sociologia portavamo in massa, conformandoci all'anticonformismo) con stampe della svastica e non vedeva l'ora di essere canzonata per poter aprire un lungo dibattito sul vero significato del simbolo. La stessa cosa varrebbe per la croce, se non fosse che è molto più socialmente accettata e generalmente non provoca una reazione aggressiva e di conseguenza non si presta come terreno fertile per dibattiti. Uno che indossa una croce, quindi, è automaticamente considerato cristiano praticante e stop, a ognuno le proprie considerazioni personali. Il cristianesimo, nonostante secoli di schifo, è riuscito a farsi accettare dai più, come una condizione tradizionalmente normale. Non condivisa da tutti, ma da tutti rispettata.
Tutto questo per dire che:
Stamattina, nel mio piccolo regno odorante di rose portate dal nostro pittoresco armeno libanese, è capitato un montatore che doveva andare nella nostra officina a smontare qualcosa. Prima che arrivasse il capo officina è passato del tempo e il personaggio mi è rimasto a pindolare davanti al bancone mentre io mi facevo allegramente i miei noiosissimi cazzi. Ad un certo punto, il capo officina è arrivato e si è portato via il montatore, il quale montatore, prima di andarsene, ha detto un "complimenti, per tutto". Io, nella mia vanità di ragazzina, abituata a stare in mezzo alla carestia da figa, ho sorriso con tutti i miei grossi e ormai ingialliti dentoni, pensando che quel "per tutto" fosse rivolto al fatto che la mia attività assomiglia a quella della dea Kali della moderna zona industriale, con un telefono per orecchio, una penna in bocca ed un'elica nel culo.
Smontato lo smontabile, il montatore ritorna per consegnare il badge. Nel gesto di consegna del suddetto badge, mi infila in mano qualcosa che ho visto essere azzurro e subito ho pensato a delle caramelle e invece.
Invece era un rosario azzurro di plastica.
E sсomparve il montatore lasciandomi nel più totale degli sgomenti.
Ecco, sono tutt'ora scossa da tutto questo, ma ora si pone un altro problema: cosa me ne faccio? Voglio dire, nonostante la mia totale assenza di religiosità, un minimo di retaggio ce l'ho ancora e buttare via simboli più o meno sacri mi sembra quanto meno irrispettoso. Cosa faccio? Già sto perseguendo una politica di minimizzazione oggettuale in previsione dell'imminente trasloco. Ok, un rosario non occupa molto spazio, però, un rosario più una cartolina più un peluche più un cd vecchio alla fine fanno volume. Al di là di questo, fosse almeno un oggetto esteticamente bello forse lo terrei, ma è terribile, probabilmente prodotto in Сina da lavoratori sfruttati che hanno maledetto quel Gesù di plastica azzurra. D'altra parte, "dimenticarlo" in treno, ad esempio, mi sembra controproducente perché è un po' come fare del proselitismo non invasivo. Vabbé che uno se non è credente, non è che trova un rosario in treno e inizia istericamente a pregare a cazzo, se invece uno credente lo è già, sicuramente ha in casa svariati rosarietti, magari anche quelli di legno di rosa (che a me piacevano un sacco, li aveva mia madre) o di variopinti cristalli super kitsch. L'ultima volta che sono stata a Roma era un carnevale di rosari, che devo dire, messi tutti insieme e perso ogni significato religioso, sono piacevoli allo sguardo (almeno al mio, che a detta del mio ragazzo, sono come gli indios che impazzivano alla vista di vetri colorati).
ok, mi è diventato un flusso di coscienza questo shock religioso.
vado a produrre. 

martedì 15 marzo 2016

Le 7 regole del convivio in Georgia


La Georgia è: vino e spiedo, eloquenza ed ospitalità. Desideri capire una persona? Mettiti a tavola con questa. Siamo andati a Tbilisi, ci siamo seduti a tavola con il tamada ed abbiamo accertato che i georgiani conoscono un modo per fermare il tempo ed allungare sensibilmente la vita.

                                Foto: Razhden Gamezardashvili


Il convivio georgiano è un rituale mistico, nato nell'amore. La parola chiave qua è proprio “l’amore”. La natura trasuda amore, l'aria è impregnata d’amore, lo spazio è carico d’amore. Si percepisce l’amore in ogni brindisi pronunciato durante il convivio. Nel modo in cui il tamada Luarsab Togonidze muove delicatamente il bicchiere tra le mani prima di fare un sorso. Nel modo in cui guarda la moglie Nino, la quale gli ha regalato cinque figli.

Il tamada Luarsab Togonidze soppesa ogni parola. A proposito, il brindisi al tamada, fatto durante il convivio, si considera l’ultimo. Successivamente tutti se ne vanno o scelgono un nuovo tamada.


Luarsab è un montanaro barbuto e possente, sui due metri. Sua moglie Nino è una mora minuta. “Ho incontrato Nino nel 1997. Naturalmente durante un convivio al matrimonio di un amico in comune”.
A Tbilisi, Luarsab è un personaggio leggendario. E non solo grazie ai brindisi… in realtà non esiste la professione del “tamada”. Il convivio celebrativo viene condotto per vocazione o su richiesta degli organizzatori. Ovviamente a titolo gratuito. L’attività principale di Togonidze è confezionamento e commercio di costumi nazionali, con i modelli restaurati in base alle esposizioni dei musei e vecchie fotografie. Inoltre, Luarsab interpreta splendidamente le litanie ecclesiastiche ed è proprietario di diversi ristoranti. Ha quindi sufficiente conoscenza ed esperienza da condividere con il prossimo. Naturalmente, a tavola.



A detta di Luarsab, nell'atmosfera del convivio è presente una magia invisibile, creata dal buon vino e dalla buona compagnia, che permette all'uomo di aprire il cuore. Tra le persone riunite deve regnare amore e amicizia, altrimenti la festa è impossibile, per quanto possa essere bravo il tamada. Perciò, ogni brindisi termina con un generale esclamazione “Gaumargios!” – augurio di vittoria a tutti i presenti. Intorno alla tavola georgiana tutti sono equi, come di fronte a Dio. È per Lui che si pronuncia il primo brindisi. Sempre

AllAltissimo


“Quando il Signore stava distribuendo le terre tra gli uomini, i georgiani si stavano godendo una tavola imbastita, bevendo vino e mangiando carne allo spiedo. Non avevano tempo per partecipare alla frenesia generale. Quando la distribuzione è terminata, i georgiani si sono trovati senza il loro pezzo di terra e il Signore ha deciso di dare loro il giardino che aveva riservato per Sé”  dice Luarsab Togonidze con voce orgogliosa.

Ogni tamada ha una struttura chiara ed universale dei discorsi celebrativi. Il vero tamada però deve saper apportare al brindisi qualcosa di personale, appartenente alla sua esperienza, metterci il suo amore. Luarsab, come la maggior parte dei suoi connazionali, ha un rapporto speciale con Dio.

“I miei parenti lodavano il Signore a tavola anche ai tempi sovietici, quando la religione era perseguitata. Il convivio storicamente è la continuazione della funzione religiosa, mentre il vino simboleggia il sangue di Cristo. Per noi è una bevanda sacra. Il vino non si beve per ubriacarsi. Tra i georgiani l’ebbrezza è considerata una vergogna! Il vino ci permette di toccare le nostre rinomate tradizioni. Gaumargios!”


IL FAMOSO VIAGGIATORE

Alexandre Dumas. Caucaso
...Alla nostra sinistra v’era la Kakhetia – questo giardino del Caucaso, questo vigneto della Georgia, dove producono un vino che rivaleggia con quello di Kizlar e potrebbe rivaleggiare con quello francese, se i nativi sapessero produrlo e soprattutto conservarlo come si deve. Lo versano in otri di capra o bufalo e dopo un certo periodo di tempo questi donano al vino un sapore particolare, apprezzato, dicono, dagli intenditori, ma disgustoso a parer mio. Il vino che non viene versato negli otri di capra e bufalo, viene distribuito in enormi anfore di terracotta, che vengono sotterrati, proprio come gli arabi sotterrano il pane di frumento, in una sorta di buche delle biade. Qua ricordano ancora come sotto i piedi del dragone russo è crollata la terra e, caduto sull'otre di terracotta, è annegato come Clarence nella botte di malvasia...




Alleternità


Esiste una leggenda sugli emigranti georgiani che sono rimasti a lungo in un ristorante parigino. Gli ospiti si succedevano e alcuni di loro, prima di andare via, chiedevano ai camerieri l'identità di queste persone. I camerieri rispondevano “Ah, sono i georgiani, ora loro non hanno la percezione del tempo…” Effettivamente, per un convivio georgiano non esiste il concetto del tempo! Quando ci sediamo a tavola, le lancette degli orologi si fermano.

Durante un convivio georgiano sono sempre presenti coloro che “ci hanno lasciato”. È per questo che qua, ricordano i defunti (brindisi indispensabile, indipendentemente dal motivo dell’incontro), si usa far tintinnare i calici: perché loro sono vivi, finché c’è chi li ricorda e li ama. Alla fine tutti  si incontreranno prima o poi e, sicuramente, si metteranno a tavola.
“Ho avuto più di una volta una sensazione metafisica – dice Luarsab – stai seduto a tavola per sette-otto ore senza rendertene conto. I brindisi, i canti, l’energia incantano, ipnotizzano. È paradossale, perché sei conscio del fatto che la vita è molto breve... Beviamo per coloro che non ci sono più, perché con la loro dipartita anche tu, inevitabilmente, diminuisci. Gaumargios!…"

  La Georgia si è convertita al cristianesimo all’inizio del IV secolo. La Vergine Maria è considerata la Protettrice del paese.


Alla generosità della terra


“…Ma la terra sa rendere, allo stesso modo in cui toglie. Soprattutto una terra fertile come in Kakhetia! (Questa regione all’occidente della Georgia, famosa per la sua antica storia vitivinicola, è spesso chiamata il Bordeaux del Caucaso n.d.r.)  Una volta, con un amico, stavamo parlando sul perché di così pochi uomini famosi originari della Kakhetia e siamo giunti alla conclusione che la terra qua regala ai nativi ogni ricchezza in abbondanza, per questo nessuno si affanna per spostarsi nella capitale, nessuno si fa in quattro per raggiungere qualcosa e distinguersi. Credo che i vinaioli confermeranno le mie parole.

Per mantenere una comunicazione dinamica a tavola, il tamada sceglie spesso qualcuno per un alaverdi – la continuazione del brindisi iniziato. La persona che riceve la staffetta sviluppa il tema precedente. Questo non è un compito difficile per l’amico di Togonidze, il vinaiolo Iago Bitarishvili, produttore di vino secondo le antiche tradizioni.
“Non mi considero un vinaiolo. Semplicemente aiuto la natura a generare il vino! La natura non si può ingannare. Un mio amico, quando studiava a Mosca ancora ai tempi sovietici, andava a raccogliere le patate. Il loro lavoro veniva ritirato da un vecchio quasi cieco, così raccoglievano un solo sacco di patate e lo porgevano al vecchio a turno, mentre lui annuiva soddisfatto... lo racconto per dire che si possono ingannare sia l’uomo che il sistema, ma non la terra... da noi si dice: “un uomo cattivo non farà un buon vino”. La qualità del vino è un test di umanità." 

 



Il tradizionale pane georgiano shoti  si cuoce in forni tondi costruiti con mattoni ignifughi. Esiste una credenza, per cui il pane ama quando si canta mentre si impasta. Solo così viene croccante e fragrante.


L’uva raccolta viene lavorata nel marani – un locale apposito. Inizialmente i grappoli si pigiano con i piedi nel satsnakheli -  una pressa scanalata in un tronco massiccio di legno di conifere. Questo è il metodo più  delicato perché lascia intatti i semi d’uva, permettendo di escludere l’indesiderato sapore amaro nel vino. Il succo spremuto nella pressa viene versato nei qvevri - recipienti ovoidali sotterrati  con capienza fino a 2000 litri, per fermentazione, invecchiamento e successiva conservazione. Il posizionamento del qvevri permette di raggiungere una temperatura stabile di 14° C: ottimale per la conservazione di prodotti alcolici. In tante famiglie georgiane, si fa tutt’ora il vino con questo metodo antico. Con l’uva di un raccolto, Iago produce circa 1200 bottiglie, le quali sono dirette in piccole enoteche europee, statunitensi ed anche giapponesi. A proposito, l’esportazione del vino georgiano in Europa è iniziata, a detta di Luarsab, nel XIX secolo circa.  
“Ai tempi iniziarono ad esportare i vini di Mukhrani in Francia. Inizialmente non erano molto popolari presso i ristoratori del posto. Allora il principe Bagration di Mukhrani ha inventato un trucco: studenti georgiani vestiti di tutto punto andavano nei ristoranti e con denaro inviato dal governo facevano lussuose ordinazioni chiedendo di servire vini di Mukhrani. Quando venivano a sapere dai camerieri che i vini non facevano parte della cantina, i misteriosi ospiti pagavano e, senza aver toccato le pietanze, se ne andavano con una scenata d’effetto. È stato così che i ristoratori hanno dovuto ampliare la loro carta di vini. Beviamo dunque alla generosità della nostra terra! Gaumargios!"
 

Prendere il toro per le corna

È raro incontrare una così vasta varietà di artefatti per bere come in Georgia

 1. ASARPESHI — coppe basse e tonde con lungo manico piatto, nella forma ricordano il mestolo.



2. KULA — recipiente chiuso in legno con collo lungo e basso. Durante l’uso batte come un tamburello. Si pensa che gli uomini georgiani si caricassero prima delle battaglie grazie ai kula.



  

3. AKVANI — recipiente a forma di culla in ceramica, contiene circa mezzo litro. Con questo vaso si beve alla nascita di un bambino.









  

4. KARKARA — recipiente metallico sferico dal collo ricurvo consistente di tre tubi attorcigliati.











 

5. CINCILA — piccola brocca contenente circa un calice di vino. 










 6. KANTSI — corna di varie dimensioni, generalmente decorate con applicazioni in argento. Il più grande viene di solito fatto girare intorno alla tavolata. 




  
7. TASI— coppa semisferica senza manici.







Agli ospiti
“In Georgia esiste una tradizione: durante il convivio si fa sempre una riserva per ospiti casuali: noi aspettiamo sempre amici nuovi! È vero, non tutti venivano da noi con il cuore aperto e buone intenzioni… ma questo non ha mai cambiato il nostro approccio agli sconosciuti.” 



 Dai georgiani si usa bere fino in fondo “Al Signore”, “Alla Patria”, “A chi non è più con noi”. Nel resto dei casi si può semplicemente fare un sorso e rimettere il calice sul tavolo. 



Ogni ospite è una festa per i padroni di casa. Si affrettano a mettere in tavola il meglio che hanno. Dopo il lobio (fagioli in salsa di noci), sazivi (pollo in brodo di noci) e khachapuri (focaccia con formaggio) appaiono i kebab (roll di carne macinata con spezie ed erbe fresche) avvolti nei lavash (pane sottilissimo), carne cotta su carbone, gli scottanti khinkali (grossi ravioli con carne speziata ed erbe fresche), i fumanti dolma (involtini di carne macinata in foglie di vite). Si espone il vino. Tanto vino. E ogni vino dispone di un carattere individuale. I georgiani lo assaggiano ed attendono che faccia effetto. Dopo tre calici se ne può comprendere l’intensità.
 Un amico russo di Luarsab, essendo in visita a Tbilisi, è entrato in casa di georgiani: gli avevano chiesto di riparare il televisore. Nel mentre, la moglie del padrone di casa ha iniziato ad apparecchiare la tavola. Presto hanno iniziato ad arrivare i vicini di casa che hanno saputo dell’ospite. Alla fine sono stati a tavola tutta la notte e il televisore non è nemmeno stato riparato.
“Abbiamo una credenza straordinaria: il tempo che si passa comunicando con gli ospiti, non viene calcolato nel conto della vita. In questo modo, ogni ospite è prezioso, perché senza saperlo ci prolunga la vita! Gaumargios!”



Ai figli

“La nostra vita è prolungata anche dai figli. Secondo la saggezza popolare georgiana, la vera scuola per i bambini è la loro famiglia! La cosa più importante è che gli “insegnanti” siano buoni, severi e giusti, mentre le “lezioni” diventino una festa.”

Un bravo tamada è un perfetto oratore, capace di sentire e trattenere il pubblico, conosce la giusta misura nel canto, nella burla e nelle disquisizioni filosofiche. Il suo compito è creare uno spirito di unità nella compagnia. Non è una cosa facile da imparare. Si diventa tamada un poco alla volta, assorbendo a tavola la saggezza dei grandi fin dalla tenera età ed imparando a comprendere il vino.

“Durante il convivio di famiglia i bambini possono vedere tutti i parenti. Tutte le cose più importanti le apprendiamo a tavola. Avevo circa quattro anni quando ho assaggiato il vino per la prima volta, facendo il mio primo piccolo sorso. Grazie a questo gesto mi sentivo parte della famiglia. I parenti mi hanno sempre trattato alla pari e mi hanno sempre ascoltato come se fossi uno di loro. Riflettevamo insieme: convivio significa sempre dialogo. Uno può esprimere la propria opinione, senza però provocare un litigio. Ci troviamo tutt’ora nella casa di mio padre nella gioia e nel dolore e il vino ci aiuta a risolvere i problemi, toglie lo stress, addolcisce il cuore. In Occidente, gli psicoanalisti inventano terapie di gruppo e diversi altri metodi, mentre a noi tutto questo non serve. Tutti i problemi si risolvono in famiglia a tavola! Mio figlio ha cinque anni, è tutto suo padre: vuole sempre pronunciare discorsi. Sono i nostri figli a dover continuare le tradizioni del convivio georgiano, della nostra terra. Gaumargios!” 


La patria del famoso vitigno “Saperavi” è la valle di Alasani, una regione unica della Kakhetia con condizioni naturali uniche

Alle madri

“Abbiamo dovuto combattere molto, tanti uomini cadevano in battaglia. È per questo che la donna in Georgia è considerata la personificazione della forza sacra, della vita stessa, della sua continuazione…
Ad esempio, io ho la laurea in economia ed alcuni ristoranti, ma sia gli affari che la famiglia stanno in piedi grazie a Nino! Tutto questo esiste solo grazie alla sua energia smoderata!
L’insulto peggiore per un georgiano è la mancanza di rispetto nei confronti di sua madre. Tutti i bambini crescono nell'infinita adorazione per la propria madre. Non a caso, uno dei più celebri simboli della città di Tbilisi è il monumento alla Madre Georgia, eretto sulla collina di Sololaki nel 1958, l’anno in cui la città festeggiava l'anniversario per i suoi 1500 anni.

La storia ricorda tempi in cui solo uomini potevano partecipare alle feste, o quando gli uomini e le donne si sedevano su lati opposti della tavolata. Ora, a tavola, stiamo tutti insieme. Si possono addirittura incontrare donne che presiedono la tavola, svolgendo il ruolo di tamada.

Ultimamente, tanti utilizzano i social per comunicare. Non vedono gli amici, ma solo le loro fotografie! Ma le persone devono avere un approccio fisico, c’è qualcosa di vivificante, di eterno in questo. È il nostro codice identificativo. È per questo che finché esiste la Georgia, esisteranno il vino ed esisteranno i brindisi! Gaumargios!”











Fonte: http://www.vokrugsveta.ru/article/199785/