Vent’anni di attesa.
Vent’anni a tremare a ogni visita, ogni chemio, ogni
peggioramento.
I medici dicevano che era un miracolo: metastasi ovunque e questa
ragazza esile reggeva ogni colpo. Mai una lagna, mai un lamento, mai una
giornata NO, come spesso succede ai malati condannati a morte. Lo vedevo,
vedevo le piaghe aprirsi sulle sue mani e i piedi, vedevo la perdita di capelli
e unghie, questa tosse soffocante, diarrea, perdita di gusto e olfatto, dolore
alle ossa e fiato corto. Un’agonia durata vent’anni. Eppure era piena di vita
fino a un mese fa. Era presente in ogni momento, con commenti caustici,
giudizi, indicazioni, grasse risate, il lavoro che mi ha insegnato, le volte
che mi sgridava con disperazione. Si arrabbiava se non ero felice, lo
pretendeva, glielo dovevamo noi tutti: essere felici per lei, per dare un senso
alla sua infinita sofferenza, al dover guardare in faccia la morte, ogni
giorno.
Avrei voluto rivederla viva per un’ultima volta. Inspirare il
suo profumo di madre, migliore amica e cagacazzi. Avrei voluto accarezzare il
suo corpo martoriato, guardare nei suoi limpidi occhi. E invece c’è stata solo
una telefonata, conclusa con un “dai, ci sentiamo: soffoco e non riesco a
parlare a lungo”.
Abbiamo parlato per più di un anno di questa tragedia
mondiale, ho avuto il cuore spezzato all’idea di nonnetti che morivano soli e
spaesati in anonimi ospedali. Poi, quando succede a qualcuno che adori, il
tutto diventa completamente nuovo. Non esiste un modo per prepararsi o per
accettare. A me non riesce. Non riesco ad accettare che sia morta sola in un
ospedale. Sono circondata dai suoi oggetti, infiniti regalini per i quali la
sgridavo, perché non servivano, perché non ne avevo bisogno. Asciugamani, calzini,
utensili per la cucina, biancheria, creme. E adesso li guardo e non riesco a
buttare via niente. La immagino, mentre andava a comprarli, con quella sua
andatura da airone, ingobbita, sempre spettinata, con una sigaretta tra i
denti. La immagino, mentre batte istericamente sui tasti, traducendo cose
intraducibili. Era in grado di tradurre, parlare al telefono, fumare e ridere contemporaneamente.
Com’è possibile che una persona così piena di vita scompaia? Per un cazzo di
virus, perdio. Dopo aver lottato vent’anni contro un tumore, una non può
andarsene per un’influenza, dai cazzo, non è giusto.
Eppure, è come avrebbe voluto lei. Non avrebbe voluto
nessuno intorno, non avrebbe voluto che noi pulissimo la sua merda, non avrebbe
voluto che la vedessimo soffocare, non avrebbe voluto un’agonia lunga mesi. Ha preso
e se n’è morta in due settimane. È proprio nel suo stile, maledetta babbiona.
“Se esci dall’ospedale, smetto di fumare”, ma non intendevo
uscirne sottoforma di cenere.
Non riesco a placcare la rabbia e la nostalgia.
Mi rifugio in una storia inventata, dove lei è semplicemente
scappata. Dove non è vero che è andata all’ospedale, è morta e l’hanno
bruciata. Una storia dove, ha avuto una remissione, ha preso i suoi stracci e
se n’è andata dai suoi adorati arabi, dove legge Le Mille e Una Notte, se ne
sta stravaccata sui cuscini a fumare il narghilè, a mangiare pezzettini di pakhlava
e bere il vino di melograno. È scappata da tutti noi che le raccontavamo tutti
i nostri cazzi, dove doveva preoccuparsi per il mio cuore spezzato, per la
dermatite della Eiffel, per la stitichezza di Tedo, per le nostre mille
peripezie, per la nonna, la madre, il marito, gli amici. Dove si è stufata di
essere la grande urna dove tutti depositavamo le nostre tristezze e difficoltà,
che lei percepiva come un affronto personale. Era come una ferita aperta e ogni
nostro scazzo le provocava un sanguinamento. Mi piace pensare che, dopo una
vita di totale dedizione fisica e mentale a noi quattro, abbia deciso di
lasciarci e andarsene dove nessuno le avrebbe più massacrato il sistema nervoso
e dove avrebbe potuto vivere libera da questo enorme amore.
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