La
società ci costringe ad odiare il ciclo. Inventa sempre nuovi metodi
per ovviare allo scazzo del ciclo. Il ciclo è un impedimento.
Per me
non lo è. Per me l’impedimento è la società. In quelle rare e
fortunate occasioni in cui ho la possibilità di passare i primi due
giorni del ciclo a casa o comunque in una situazione rilassata, è un momento
che mi godo tantissimo. Un momento in cui mi sento perfettamente in
comunione con la terra, sento di essere come un albero, sento
l’energia fluire attraverso
di me verso la terra (anche se mi rendo conto che il verbo “fluire”
possa far addurre ad altre associazioni in questo contesto).
Nel
momento in cui il dolore passa, sento una dolcezza perfetta spandersi
in tutto il corpo, mi sento morbida materna femmina e brutta. Perché
è inevitabile: la pelle perde di elasticità, i capelli diventano
secchi, le gambe gonfie, le occhiaie assumono un volume simile agli
emisferi. Eppure mi sento donna. Vorrei potermi permettere di
muovermi piano piano, di
avere il tempo di percepire i contorni e la sostanza del mondo che mi
circonda.
E
invece sono in un ufficio a battere su dei tasti. Devo essere
scattante, reattiva, muovermi in fretta e non far trasparire né il
dolore né la dolcezza.
Quanto
vorrei non avere fretta.
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