Oggi è il ventunesimo giorno del ventunesimo anno del ventunesimo secolo. Ore ventuno.
Dicono di esprimere i desideri, oggi.
Ho la febbre, gente attorno a me in paranoia perché potrei
avere il C19, questo maledetto figlio di puttana, a cui mi piace dare la colpa
di tutti i miei guai.
Ho la febbre, ma bevo vino. Vino rosso che mi tinge i
pensieri e i denti.
Esco sul balcone a
fumare una sigaretta, guardo il cielo e penso ai desideri che potrei avere.
Il primo, inconsapevole, stupido, non formulato desiderio è
stato: “voglio vedere il mio ale”.
Poi mi sono ripresa: sono stata io a lasciarlo, sarebbe una
presa per il culo, anche per il ventunesimo giorno, esprimere un simile
desiderio. È una presa per il culo essere così perdutamente innamorata del
ragazzo che mi ha spezzato la vita? Lo è.
Ho un sacco di desideri.
Tipo la pace nel mondo.
La guarigione dal disastro ambientale.
La salute delle persone più care.
Una maternità felice.
Un lavoro soddisfacente.
La pace dei sensi.
Ma il vero desiderio, quello che è nato dalle viscere, prima
di chiedere alla razionalità di formularne uno, è quello di un suo abbraccio,
del suo odore, della sensazione di pienezza, completezza, della luce che accendeva.
Non è un desiderio giusto da mettere nel taccuino delle stelle per l’anno
appena iniziato. È un desiderio che deve appartenere al passato, che non può
più materializzarsi. È un ricordo che devo imparare ad amare in quanto tale: “non
saremo più l’ale e la mariam”, come ha detto lui quell’ultima domenica
pomeriggio.
Voglio però essere onesta almeno con me stessa. Non mi
importa un cazzo di nessun altro desiderio razionale, se mi manca la base. E la
base era la nostra magia. Me ne sono resa conto troppo tardi. Vedrò di alzare
il mento e scornarmi con questo e tutti gli altri anni a venire, ignorando i
desideri nati da sotto le scapole e con la consapevolezza che Jasmyn Ward me l’ha
presentata lui.
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