Era forse uno degli anni peggiori della
crisi. In famiglia. Nel paese. Niente cibo. Niente elettricità, niente gas,
niente riscaldamento. Andavamo a dormire vestiti. Mangiavamo riso e patate nel
migliore dei casi. 1 settembre 1993. Il mio primo giorno di scuola. Ricordo la
camicia bianca con delle spille a forma di fiorellini sull’enorme colletto
bianco con i bordi di pizzo. Ricordo la cartella colorata con dei dinosauri.
Verde e rosa shock. Il tutto direttamente dalla Libia dove mia zia, allora
ancora decisamente sana e piena di energia, lavorava come un mulo per poter
mantenere noi e la sua famiglia.
Ricordo mio padre. Le sue labbra umide. Ricordo lui
accucciato vicino a me, in ultimo banco con una ragazzina dagli occhi azzurri o
verdi, profuga. Tenevo la cartella sulle ginocchia, avevo paura di appenderla
sulla sedia perché mio fratello aveva detto che rubano. Le cartelle e quello
che c’è dentro. Ricordo lui che diceva di appenderla e io che dicevo che no,
che va bene così. Ricordo la maestra con il rossetto sui denti. Faccia
compiaciuta di una donna di campagna. Ricordo l’odore della cera per il
parquet. Ricordo la finestra dalla quale guardavo. Ero seduta nella fila vicino
alle finestre. Ricordo il grumo, a quel tempo ormai abituale. Il grumo in
gola che mi ha accompagnata per tutti i giorni dell’asilo. Il grumo
dell’abbandono, il grumo della voglia di mia mamma.
20 anni fa andavo a scuola per la prima volta. Sapevo già
leggere in due lingue. Abilità considerata quasi geniale dalla maggior parte
degli occidentali ma abbastanza normale per i ragazzi della mia città. Ricordo
Levan dagli occhi azzurri che ha chiamato la maestra “nonna” e le risate.
La scuola numero 155.
Oh quanto ho imparato nelle varie scuole della mia vita.
Quante scuole.
Ricordo la sensazione di inappropriatezza. Di essere fuori
luogo. Di essere in un posto dove tutti si sentono a loro agio mentre io vengo
fuori da una famiglia disastrata. Con un nonno adorabile ma schizofrenico. Con
una nonna pragmatica e antipatica. Con una mamma giovane e abbandonata che
piange dalla disperazione.
Ricordo mio fratello che non veniva mai a trovarmi.
Ricordo che probabilmente una volta mi sono rotta le dita o
un dito del piede e non riuscivo nemmeno ad alzare il piede dal male, ma non
l’ho mai detto a nessuno.
Ricordo il freddo e lo scricchiolio del linoleum giallo
della cucina.
Ricordo le piccole piastrelle rosse e gialle del bagno.
Ricordo i pezzettini di giornale ritagliati che usavamo come
carta igienica.
Ricordo quando chiamavo il nonno per pulirmi il culo dopo
aver cagato.
Ricordo le chewing gum LOVE IS che la mamma ci portava nelle
giornate buone e che tagliavamo in due triangolini per me e mio fratello.
Ricordo i tasti freddi del pianoforte.
Ricordo gli esercizi infiniti e l’odore di legno verniciato
del pianoforte.
Ricordo i suoni confusi che uscivano da ogni aula della
scuola di musica.
Ricordo il negozio in cui la nonna andava a prendere il pane
e ricordo il palmo della sua mano con su scritto un numero a tre cifre che
indicava il suo posto in fila per il pane.
Ricordo i piccoli cartoncini di razionamento per il pane e
per altri cibi.
Ricordo la voce di mio nonno che raccontava aneddoti di un
passato remoto alla luce della lampada a cherosene.
Ricordo i pidocchi e le larve perlate che lasciavano nei
miei lunghi capelli folti.
Ricordo la sensazione di imbarazzo perché ero sempre vestita
con dei vestiti bruttissimi.
Ricordo me stessa con il palmo della mano aperta che
indicavo allo specchio i miei 5 anni. 5 anni. Mi sembravano tantissimi.
Ricordo la prima barbie tarocca dai capelli rossi e il
vestito rosso con una retina dorata e un fiore bianco sulla scollatura.
Proveniente dalla lontana e calda Libia dove tutti stavano bene. La osservavo
alla luce di una candela. E l’arrivo della luce elettrica sembrava un miracolo,
ma sembrava tutto assolutamente normale, perché non avevo visto altro nella mia
vita. Ricordo i diari che scrivevo in georgiano. Le minuziose descrizioni di
giornate con quella velata sensazione di rabbia e invidia. L’invidia.
L’invidia per quelli che erano dei georgiani veri e non dovevano vergognarsi
perché parlavano in russo a casa. L’invidia per quelli che avevano una famiglia
con un papà e una mamma e nessun nonno che ti fa da surrogato. L’invidia per
quelli che non dovevano sentirsi in colpa perché andavano in gita. L’invidia
per quelli che avevano una famiglia relativamente normale. Per quelli che il
fine settimana facevano delle cose divertenti mentre io stavo sempre a casa.
L’invidia.
Che poi si trasforma nell’odio. Ma la maggior parte delle
volte tu credi che sia odio ma poi in realtà è sempre invidia. L’odio è
invidia. Odi le persone che invidi.
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