venerdì 13 maggio 2016

in linea con la copertina dell'internazionale di questa settimana.

La società ci costringe ad odiare il ciclo. Inventa sempre nuovi metodi per ovviare allo scazzo del ciclo. Il ciclo è un impedimento. 
Per me non lo è. Per me l’impedimento è la società. In quelle rare e fortunate occasioni in cui ho la possibilità di passare i primi due giorni del ciclo a casa o comunque in una situazione rilassata, è un momento che mi godo tantissimo. Un momento in cui mi sento perfettamente in comunione con la terra, sento di essere come un albero, sento l’energia fluire attraverso di me verso la terra (anche se mi rendo conto che il verbo “fluire” possa far addurre ad altre associazioni in questo contesto).
Nel momento in cui il dolore passa, sento una dolcezza perfetta spandersi in tutto il corpo, mi sento morbida materna femmina e brutta. Perché è inevitabile: la pelle perde di elasticità, i capelli diventano secchi, le gambe gonfie, le occhiaie assumono un volume simile agli emisferi. Eppure mi sento donna. Vorrei potermi permettere di muovermi piano piano, di avere il tempo di percepire i contorni e la sostanza del mondo che mi circonda.
E invece sono in un ufficio a battere su dei tasti. Devo essere scattante, reattiva, muovermi in fretta e non far trasparire né il dolore né la dolcezza.

Quanto vorrei non avere fretta. 

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