martedì 31 maggio 2016

non mi stancherà mai

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue.

lunedì 30 maggio 2016

rainbow warrior

sono decisa ad allontanare le persone negative dalla mia esistenza.
ma come faccio se le persone più negative della mia vita sono esattamente le persone a cui voglio più bene?

venerdì 13 maggio 2016

in linea con la copertina dell'internazionale di questa settimana.

La società ci costringe ad odiare il ciclo. Inventa sempre nuovi metodi per ovviare allo scazzo del ciclo. Il ciclo è un impedimento. 
Per me non lo è. Per me l’impedimento è la società. In quelle rare e fortunate occasioni in cui ho la possibilità di passare i primi due giorni del ciclo a casa o comunque in una situazione rilassata, è un momento che mi godo tantissimo. Un momento in cui mi sento perfettamente in comunione con la terra, sento di essere come un albero, sento l’energia fluire attraverso di me verso la terra (anche se mi rendo conto che il verbo “fluire” possa far addurre ad altre associazioni in questo contesto).
Nel momento in cui il dolore passa, sento una dolcezza perfetta spandersi in tutto il corpo, mi sento morbida materna femmina e brutta. Perché è inevitabile: la pelle perde di elasticità, i capelli diventano secchi, le gambe gonfie, le occhiaie assumono un volume simile agli emisferi. Eppure mi sento donna. Vorrei potermi permettere di muovermi piano piano, di avere il tempo di percepire i contorni e la sostanza del mondo che mi circonda.
E invece sono in un ufficio a battere su dei tasti. Devo essere scattante, reattiva, muovermi in fretta e non far trasparire né il dolore né la dolcezza.

Quanto vorrei non avere fretta. 

giovedì 5 maggio 2016

La Georgia è un altro mondo: la gente è più bella, il vino più rosso e le montagne più alte...


Nel settembre del 1899 il grande scrittore norvegese Knut Hamsun viaggiò per la prima volta nei suoi 40 anni. Si diresse nel Caucaso, attraverso la Russia. È possibile che questo fosse il suo viaggio di nozze, in quanto lo scrittore portò con sé anche la giovane moglie Bergljot Bech. Il risultato del viaggio fu il libro pubblicato nel 1903 “Viaggio nel Caucaso”.


Knut Hamsun, insieme alla compagna, arrivò a San Pietroburgo dalla Finlandia e partì la stessa sera in treno per Mosca. Il suo soggiorno fu breve anche qui: il giorno successivo, lo scrittore partì in treno per l’itinerario Mosca – Voronezh – Rostov-na-Donu – Armavir – Pyatigorsk – Vladikavkaz. Giunto nella “città-fortezza russa che possiede il Caucaso”, lo scrittore si spostò a Tiflis su una carrozza con quattro cavalli, passando in viaggio tre notti.

Ecco come descrive Knut Hamsun il suo incontro con il Monte Kazbeg: “All’improvviso, dietro una curva stretta a destra, si apre la valle e ci si para davanti, vicinissimo, il Kazbeg con i suoi ghiacci scintillanti al sole. Ci colpisce con la sua potenza – alto, terribile, silente. Siamo permeati da una sensazione irripetibile che ci stringe lo stomaco: il Kazbeg, come un essere dell’altro mondo, si innalza circondato da montagne che gli giurano fedeltà, e ci guarda. Scendo sgraziatamente dalla carrozza, la aggiro e tenendomi stretta ad essa, guardo il Kazbek. Mi gira la testa, mi sembra di essere sollevato da terra, sopra la strada, e mi trovo faccia a faccia con Dio”.
Quando si trova nel villaggio di Kobi, incantato dalla natura circostante, lo scrittore riflette su Dio e la Sua creazione. “Seduto a terra, guardo il cielo, e siccome io, a differenza di molti, non ho ancora chiarito il mio rapporto con Dio, mi immergo per un po’ nelle riflessioni su Dio e la Sua creazione. Questo mondo magico ed incatenvole, questo antico luogo di esilio dove sono capitato, si è rivelato il posto più sorprendente al mondo”.
Per tutto il viaggio, Knut Hamsun non smette di stupirsi della natura e si pone domande retoriche come: chi sta meglio? Gli europei, gli yankee od i caucasici?
La luna illumina già parecchio, anche se sono solo le cinque del pomeriggio, il sole e la luna brillano contemporaneamente dai cieli ed è abbastanza caldo. Questo mondo non somiglia a nessuno tra quelli visti prima e torno a pensare che potrei vivere qua tutta la vita. Siamo già scesi così tanto a valle che sono ricominciati i vigneti, nel bosco cresce il noce, il sole e la luna brillano contemporaneamente, sfidandosi a vicenda. La magnificenza della natura domina l’uomo; anche quelli che vivono qua ed osservano da sempre questo splendore, non smettono mai di stupirsene… un caucasico non conosce fallimenti ed ascensioni del tasso di cambio della borsa di New York, la sua vita non assomiglia alle corse dell’ippodromo, esso vive senza fretta, si nutre dei frutti della natura o della carne di montone. È concepibile sostenere che gli europei o gli yankee siano superiori ai caucasici? Dio solo lo sa: è talmente discutibile che nessuno, tranne Dio, può rispondere a questa domanda.”









Durante il viaggio, lo scrittore si concentra sui villaggi georgiani. “Ogni villaggio presenta un complesso di case fuse l’una con l’altra, erte una sopra l’altra, plasmate sul pendio”. Lo scrittore freme alla vista di rocce scoscese ed abissi senza fondo. Knut Hamsun descrisse il momento in cui, su uno dei tratti più pericolosi della strada, comparvero, di sotto terra, due pargoletti di 6 od 8 anni ed iniziarono a carolare e svoltolarsi. Con incomparabile impertinenza facevano capriole sull’orlo della strada, eseguendo una danza della morte. “Non mi restava altro che metter mano alla borsa e pagarli”.

Ci stiamo avvicinando a Tiflis. La strada costeggia il Kura. Il Kura è maestoso e sublime… in lontananza compare Tiflis: è un insieme di puntini alla rinfusa, un mondo a sé. Sopra la città pende la caligine. Eccolo, Tiflis, la città di cui scrissero molti poeti russi, la città presente in molti romanzi russi. Mi sento improvvisamente giovane, mi guardo intorno con stupore e sento quanto è forte il battito del mio cuore. Provai qualcosa di simile la prima volta che attendevo la lezione di Georg Brandes. Teneva una lezione all’università di Copenaghen. Aspettammo per un tempo infinito per strada, sotto la pioggia, affollandoci intorno al portone chiuso… ma ecco aprirsi le porte e corriamo su per le scale, per il corridoio, in aula dove mi trovo un posto. Aspettiamo ancora a lungo, l’aula si riempie, brulicando di mille voci. All’improvviso l’atmosfera si placa, lasciando spazio al regno di un silenzio di tomba. Sentì i battiti del mio cuore. Finalmente Lui salì sulla cattedra...”




Ecco quanto riferiva di Tiflis ai suoi lettori norvegesi:
La città conta cento sessantamila abitanti, di cui gli uomini sono il doppio delle donne. Qui si parlano settanta lingue… Tiflis subì il dominio di romani, persiani e turchi, ora è sotto i russi. La prosperità degli ultimi anni è dovuta alla conveniente posizione geografica: la città sorge sull’incrocio di vie commerciali che attraversano le montagne e collegano il mar Caspio con il Mar Nero, la Russia e l’Armenia. Nella città vi è un eccellente museo, teatro, raccolta di pittura, giardino botanico, fortezza… mentre sopra la città si erge il monastero di San Davit. Situato su un monte sacro per i georgiani – il Mtatsminda. Il monastero ospita la tomba di Griboedov”.


Knut Hamsun: “La città non si è rivelata molto interessante. Tornammo però in uno dei cantucci più e più volte ammirandolo infinitamente – era il quartiere asiatico. A Tiflis, c’erano negozi con vetrine a grandi specchi, tram a cavalli, teatri-varietà, dame e signori vestiti all’europea, ma nel quartiere asiatico tutto era differente: anche le strade qui non sono strade ma vicoli, passaggi incapestrati, scalette che portano da una casa all’altra, in su e in giù.

Nelle botteghe commerciano rappresentanti di ogni specie e popolo e vendevano oggetti più sorprendenti… Circondati da asini, cavalli e cani, gli artigiani lavorano per strada, i fabbri arroventano il ferro in piccoli fornelli battendolo su piccole incudini. Orefici e argentieri levigano, niellano, cesellano e incidono i loro manufatti, li decorano con turchesi ed altre pietre. I sarti confezionano lunghe palandre di feltro su macchine da cucire importate dall’Occidente… Nelle botteghe si vendono principalmente tessuti di seta, ricami, tappeti, armi e gioielli… qua e là, nelle minuscole botteghe, siedono scrivani trascrivendo su richiesta…
Scorre silenziosamente la vita del quartiere asiatico, lontana dal resto del mondo. Qui regna il silenzio, mentre tutto intorno si sente il chiasso della città mercantile, come se là fuori ci fosse l’America. È raro sentire qua una parola detta ad alta voce, raramente si sente un urlo inutile. Solo voci basse, discreti cenni con i turbanti e null’altro. Nel quartiere asiatico quasi non ci sono donne, è molto raro vedere due donne conversare con i bambini in braccio, e anche loro parlano a voce molto bassa. Gli armeni costituiscono un’eccezione nelle loro botteghe: loro lodano ad alta voce le loro armi e mentono apertamente ai compratori sia qua che in qualsiasi altro posto. Un ebreo può imbrogliare dieci greci, ma un armeno ingannerà dieci greci e dieci ebrei...”
Da Tiflis, Knut Hamsun si diresse a Baku e successivamente pianificava un viaggio in Oriente, in Persia. Una lettera di accredito francese però, che lo scrittore teneva in tasca, cambiò drasticamente i piani del viaggiatore. Presso le banche di Baku non emisero denaro dietro tale documento, dicendo di non aver mai visto prima di allora delle carte simili. Hamsun si vide costretto a tornare a Tiflis, dove le banche lavoravano con lettere di accredito francesi. Prelevato il denaro a Tiflis, decise però di partire per Batumi, sul Mar Nero, invece di andare in Persia.
Ecco, come vide lo scrittore la città portuale:

"Batum conta quaranta mila abitanti, forse pochi più. Alla vista ricorda in parte sia Tiflis che Baku – grandi edifici moderni di pietra si alternano a piccole e buffe costruzioni di pietra, rimaste dai tempi dei turchi. Le strade sono larghe, ma non lastricate, qua si cammina e si viaggia direttamente sulla sabbia. Al porto si trovano infinite navi, dai piccoli velieri, arrivati fin qui dalle città del sud o addirittura dalla Turchia, fino alle grandi navi da passeggeri europee provenienti da Alessandria o Marsiglia…

La vita di Batum è in qualche modo simile alla vita degli stati a sud degli Stati Uniti. Il ristorante, gli alberghi sono frequentati da un pubblico vestito all’europea, in seta e diamanti. Ordinano piatti raffinati e bevono champagne… Le maniere da americani degli stati del sud si manifestano particolarmente al momento del saldo. Amano pagare con le più grosse banconote, che sia necessario o meno, costringendo i camerieri di chiedere il resto al proprietario. Lasciano mance consistenti. E lasciano il vino in calici e rosoliere...
A Batum vi è anche un lungomare alberato. La sera è pieno di carrozze e persone a passeggio. Si trovano qua cavalli pieni d’ardenza, fruscio della seta, e ombrelli, e sorrisi, e saluti: tutto uguale ad una qualsiasi città degli Stati del sud. Si trovano anche qua bellimbusti, damerini con alti colletti simili a polsini, camicie di seta ricamate, cappelli sulle ventitre e bastoni grossi come il braccio… non è l’alterigia a farli vestire così, semplicemente anche loro desiderano farsi notare e sceglono questo metodo puramente estetico, il quale aiuta a raggiungere in fretta lo scopo e non richiede grandi sforzi. Il cappello può rendere famoso un uomo molto più in fretta di quanto non lo faccia un libro od un quadro. È quello che fanno i francesi, e perché non dovrebbero?”

L’autore termina così i suoi appunti di viaggio “La Terra Favolosa” : “Domani partiamo di nuovo per Baku, da lì proseguiamo per l’Oriente. Tra poco ci separeremo da questo regno, ma sarò sempre attratto da questo posto, perché ho bevuto l’acqua del Kura”. In realtà Knut Hamson non tornò a Baku, non andò mai in Oriente. Attraversò il Mar Nero su un battello, superò lo stretto del Bosforo e giunse a Costantinopoli.
In capo ad un anno dopo il viaggio nel Caucaso, Knut Hamsun, scriverà in una lettera indirizzata alla poetessa norvegese Dagni Kristensen: “...Non rivivrò mai più una favola di cotanta meraviglia e superbia, specialmente fiabesco è stato il viaggio da Vladikavkaz a Tiflis attraverso le montagne… E’ un mondo diverso, la gente è più bella, il vino più rosso e le montagne più alte. E credo che Dio alberghi sul Kazbeg tutto l’anno...”
Nella lettera all’amico ed editore Albert Langen, scriveva: “...Attualmente, il libro che più mi rende felice è “Il Libro del Caucaso”, che sarà il migliore tra tutto quello che ho fin’ora scritto”. Il romanzo migliore dello scrittore diventerà però “I Frutti della Terra”, pubblicato nel 1917 e premiato con il Nobel nel 1920.
Il libro “La Terra Favolosa” fu pubblicato nel 1903, nello stesso anno, Knut Hamsun pubblicò il dramma amoroso “La Regina Tamara”, scritto sotto l’impressione del viaggio in Georgia. L’opera fu rappresentata nel 1904 al Teatro Nazionale di Oslo, anche se non riscosse particolare successo, nonostante la musica per la rappresentazione fosse stata composta dal famoso compositore norvegese Johan Halvorsen.

Cento anni dopo il viaggio di Knut Hamsun in Russia e nel Caucaso, due giornalisti norvegesi, Bjørn Rudborg ed Ule Peter Ferland, hanno ripercorso le tracce dello scrittore provando a ritrovare “questo fiabesco regno”. E lo hanno scoperto, narrandone nei loro appunti di viaggio "Nella Terra FavolosaCent’anni Dopo”. “Non abbiamo bevuto l’acqua del Terek, Aragvi o Kura, - scrivono Bjørn Rudborg ed Ule Peter Ferland – ma saremo sempre determinati a tornare qua. Il Caucaso è una fiaba, è inimitabile e brutale!"






Fonte: http://www.geomigrant.com/
Foto: Knut Hamsun

nervi a fior di minchia is a state of mind.


no. non mi si può dire niente. mi incendio per tutto e fulmino con sguardo, mascelle serrate, mento alto e sorriso a mezza bocca. e mi rendo conto che è esagerato, è fuori luogo, è stupido da parte mia. che devo essere più tranquilla e positiva, che bisognerebbe anche essere abituati al fatto che se hai un capo, questo romperà sempre i coglioni per delle stronzate epiche che sono talmente minuscole e insignificanti rispetto alle cose che non vanno davvero bene, che ti verrebbe da schiaffeggiarlo dalla rabbia. 
ancora peggio se hai più di un capo. ognuno con la propria mania, ognuno con il proprio complesso di inferiorità e di inadeguatezza, ognuno con il proprio bisogno di sentirsi realizzato a spese dei dipendenti. 

sì. sento i nervi a fior di minchia, sento che potrei esplodere da un giorno all'altro. esplodere in faccia a tutto e tutti. scavare una piccola buca nella terra, affondarci la testa e fare lo struzzo per il resto dei miei giorni.