lunedì 27 giugno 2022

68

Oggi è il giorno in cui mia mamma soleva preparare una grande torta con fragole fresche.

Era il giorno in cui si chiamava la Bulgaria e ci mettevamo ad urlare tutti insieme, senza ascoltarci, senza sentirci, ridendo di noi stessi, e brindando con vino freddo. 

La più squillante delle ragazze, la più irriverente del clan, oggi avrebbe compiuto 68 anni e avrebbe risposto al telefono tossendo e battendo le traduzioni con una mano sul suo scassato computer. Avrebbe spietatamente stroncato tutti i nostri auguri, invitandoci ad infilarli nei rispettivi ani e di darle finalmente dei nipoti, invece di cazzeggiare. 

Dove sei adesso che dovresti rompermi le palle da mattina a sera, agitandoti come un gabbiano affamato per ogni minchiata riguardante il bambino? Ti sembra giusto non esserci? Ti sembra giusto lasciarci soli? Chi ci sdrammatizza? Chi ci interrompe gracchiando? Chi ci insulta? Come faccio io a moltiplicarmi, se tu non sei lì a spiegarmela? Passano i mesi, gli anni, eppure io non riesco ancora a capire perché si debbano perdere le persone che servono per acquisirne di inutili. 

Vuoto.

Mi manca la casa.

Mi manca l'odore delle lunghe tende beige, dietro le quali mi piaceva nascondermi da piccola e immaginare di essere invisibile, mentre la casa si riempiva di voci di donne.

Mi manca vedere la casa dal basso, con sguardo di bambina, dove tutte le persone che amo erano vive, giovani e forti. 

Sembra di essere una gallina spennata. 

Senza forze.

Mi mancano le persone che sapevano darmi forza. 

Non voglio diventare grande.


martedì 21 giugno 2022

La Tradisiòn

Correva l'anno 2016, 31 dicembre.

Il giorno dopo partivo per la Georgia.

Avevamo bidonato tutti gli inviti per festeggiare il capodanno e ci aggiravamo per Verona con un'aria di completa estraneità al generalizzato spirito capodannesco. 

In piazza Bra c'era Jerry Calà e io ero infinitamente orgogliosa del fatto che non ce ne fregasse un cazzo di feste, che ci bastavamo, che non serviva niente per essere felici.

Siamo passati in questo baretto dove andavamo spesso, quando eravamo a Verona. Ci siamo fatti un paio di grandi spritz e avevo la netta sensazione di essere completamente isolata dai rumori, dalle risate, dal freddo. Bolla. Bello. 

Torno di nuovo in questo baretto, si chiama la Tradisiòn. Mi fa ridere. Io, che ho sempre sognato di creare delle tradizioni, io che ne ho sempre avuto un disperato bisogno, io che poi arrivo ad oggi che sembro una tillandsia senza radici, senza un punto fermo. Entro. Mi appoggio. Apro il libro. Guardo esattamente quel tavolino e penso che, questa volta, ci porto un altro ragazzo, il ragazzo che ho nella pancia, anche lui nella sua bolla, anche noi isolati dal resto del mondo. Solo noi e un libro e questa perenne sensazione di vivere dietro un vetro. 

Il bar è molto bello, lo consiglio sempre a chi è in centro e vorrebbe piazzarsi in un limbo tra il locale fighetta e la delocalizzazione cinese. 

La barista è molto bella. Le ho chiesto un succo al pomodoro con tabasco rinforzato per mimetizzare l'assenza di vodka e mi sono guadagnata una giornata di gastrite acuta e defecazione infuocata. Mio figlio danzava sulle braci. Faceva caldo e io continuavo a vivere con questa sottilissima nostalgia luminosa. 

Scrivimi, quando arrivi. 



giovedì 9 giugno 2022

occupazione russa everywhere

Tutti, o quasi, mi ridevano in faccia, domandandomi che cazzo di senso abbia andare a fare il ponte in un posto che posso raggiungere in un'ora di macchina, un posto, tra l'altro, da nonnetti, senza nessun tipo di attrazione, tranne quattro pini e qualche casupola.

E più mi ridevano e più io m'impuntavo. 

Armo il mio canarino con un serbatoio pieno d'oro nero e parto.

Ho prenotato e cancellato la prenotazione 3 volte prima di riuscire ad arrivarci. 
Avevo ormai una fitta corrispondenza con l'hotel e mi sembrava quasi un dovere andarci.

Sbarco quindi nella località di F e l'albergo mi accoglie con la scritta CUCINA ANCHE RUSSA... e già sto male e mi domando per quale motivo poteva sembrarmi un dovere andare in un posto del genere.
Penso anche che "audaci i gestori, minchiadigesubambino!"
Penso anche che, probabilmente, il gestore è un morto di figa a cui una qualche scadente matrioska (perché quelle belle di certo non finiscono nella località di F.) ha fatto vedere un pezzettino di organo riproduttivo ed ora si sente in dovere di perorare il putinismo. 
Ho i coglioni in giostra, ma ormai sono lì, ho prenotato, sono stanca, ho bisogno di un bagno, ho bisogno di cibare il mio piccolo parassita e, soprattutto, non posso tornare sui miei passi girando i tacchi e dichiarando il mio disappunto a tutti coloro che mi ridevano in faccia. 

Entro e scopro che la realtà supera la mia malvagia fantasia: l'albergo non è di un coglione filorusso, l'albergo è di proprietà di russi
Una georgiana russofoba, va a farsi un ponte nello sperduto paesino di F. e capita in un albergo di russi.
Mi sembra un ottimo incipit per un noir. 
Mando giù il grumo di merda che mi si è inevitabilmente formato in gola e decido di coesistere con questa situazione surreale... tant'è che il proprietario comincia a fare il lumacone con me.
Deduco quindi che anche da piena si può rimorchiare. La cosa mi fa decisamente ribrezzo, ma i fatti bisogna pur constatarli. Il padre di mio figlio sostiene che devo aver fatto pena al gestore: povera, piccola, sola e incinta, così ha incluso nel pacchetto un po' di flirt per farmi sentire a mio agio. Dubito che un uomo eterosessuale possa disporre di tanta sottigliezza (tranne chiaramente il padre di mio figlio che non perde occasione per farmi sentire come una confezione ammaccata di pelati scontati al discount). 
Il gestore, chiamiamolo Tovarish E, si atteggia un po' da bohémien, con gesti scenici, tutto sorrisi, gentilezza e sguardi languidi. Ci tiene molto a sottolineare che è lui il proprietario della baracca, probabilmente per impressionarmi. Mi costa una fatica infinita cercare di nascondere il mio naturale odio arricchito di schifo per questo suo appiccicoso flirt da romanticone dannato. Sorrido educatamente, taglio le frasi e cerco di minimizzare il contatto. 

Devo però dar da mangiare al botolo. 
Mi siedo.
Decido di fare un passo verso il pacifismo ed esplorare la cucina ANCHE RUSSA.
La proposta gourmet comprende un unico piatto, i pelmeni, che tra l'altro non sono nemmeno russi ma ucraini di origine. Molto presto, scopriremo che anche il vino l'hanno inventato loro. 
I pelmeni sono dei raviolini di pasta sottile ripieni di carne macinata con cipolle ed erbette. Si servono con pepe nero e panna acida in dei piccoli vasetti di terracotta. 
Considerando però che mi trovo in questo albergo con ambizioni raffinate, mi portano i pelmeni su di uno stretto piattino rettangolare, molto fusion e scomodo come un tacco a spillo sullo sterrato. Chiedo di avere del pepe nero, al che Tovarish E mi guarda con quel suo sguardo umido, posizionandosi di tre quarti per maggiore effetto scenico e mi domanda: "o forse un po' di curry?". Ma povero stronzo! Chemminchia c'entra il curry (che probabilmente è una spezia considerata tipicamente russa) con i pelmeni e la panna acida, per l'amor di Cristo? Spalanco i miei grandi occhi e con un sorriso di plastica insisto per avere del pepe nero. Impegnati un po' di più per impressionarmi con proposte esotiche, coglione!

Ora mi propone del vino da accompagnare alla cena. 
Sorrido in silenzio, dando stupidamente per scontato che sia logico non ubriacarsi in gravidanza. 
Abbassa lo sguardo sul loft che si è fatto mio figlio dentro di me, ritorna a penetrarmi con lo sguardo, uscendosene con: "da quando sono arrivato in Italia, ho scoperto che qua le donne bevono tranquillamente anche in gravidanza". Respiro profondamente, ributto indietro nella memoria le mostruose percentuali di sindrome da feto alcolico che arrivavano dagli orfanotrofi russi. Sorrido educatamente e accetto un calice di vino, perché se non avessi bevuto in quel momento, probabilmente avrei dovuto passare all'autolesionismo per sfogare lo sgomento.  QUA! QUA LE DONNE BEVONO TRANQUILLAMENTE! Ma io ti prendo a scarpate in bocca! Non che abbia particolarmente a cuore la moralità delle italiane, per l'amor dell'ostia, ma un così palese rovesciamento dei fatti mi massacra. D'altronde, niente di nuovo: i russi devono averla nel sangue questa capacità di commettere crimini e poi accusarne gli altri. 


Incasso.
Nutro il figlio.
Mi concedo un bicchiere di vino.
Mi ficco sotto la doccia calda. 
Faccio degli esercizi di respirazione nel letto.
Medito. 

Sono riuscita a portarmi a casa i miei quattro giorni senza sclerare. 
Sono riuscita, anzi, a prendermi gioco della situazione.
Mi sono sentita molto adulta.

Adulta, ma rincoglionita. 

Il giorno dopo la partenza, Tovarish E mi telefona comunicandomi che ho lasciato delle mutande in un cassetto.

Voglio sprofondare.

Lo dice con quel suo languido tono di voce, facendomi intendere che ha captato il messaggio. Che poi, fossero chissà che mutande, ma sono dei triangoli di cotone nero. L'unico messaggio che potevano contenere poteva essere tipo "fatti un giro da Intimissimi, perdio". 

Mi propone di vederci a valle per passarmi il prezioso souvenir. 

Vorrei dirgli di buttare via le mutande e cancellare il mio numero, ma visto che sono adulta e superiore a queste sciocchezze, declino educatamente l'invito e gli prometto di andare su io a bere un caffè, prima o poi...

Chiudo e vado in bagno a lavarmi la faccia.

Devo imparare a debellare questo ribrezzo dalla mia personalità, dovrei provare ad incanalare la cosa su un'aracnofobia o qualcosa di simile. 
Vivrei sicuramente meglio.





lunedì 6 giugno 2022

Ferrara di Monte Baldo

E' dai tempi del divorzio che mi prometto di fare un viaggio solitario.
Un viaggio dove mi prendo il tempo per riconnettermi con me stessa, dove non devo condividere lo spazio, il tempo, il ritmo, le preferenze. 
Il mio divorzio è stato molto doloroso (raramente un divorzio è leggero, lo so) e mi ha lasciato questo enorme bisogno di tornare a me stessa, di ricordarmi come ero io, senza questo gigantesco sentimento, di mettere le mie preferenze al primo posto, di leccarmi le ferite. 
E' passato del tempo dal divorzio, ma una serie di peripezie glocal mi avevano impedito di partire da sola. 
Ora, a poco più di quattro mesi dal parto e con le ferite ancora sanguinanti, ho pensato che bisogna farla questa cosa, perché a breve la mia vita sarà rovesciata, ammucchiata e pigiata in un'esistenza confinata tra pannolini, pappette, biberon e sorrisini sdentati. 
Sarebbe stato bello andare in Giappone.
Sarebbe stato bello andare in Messico.
Sarebbe stato bello andare in Iran.
Considerate le mie possibilità, avevo deciso che sarebbe meraviglioso andare anche a Venezia. Vedere finalmente la biblioteca degli armeni, farmi un giro approfondito del ghetto ebraico, girare senza meta, senza scazzi, fermarmi a leggere quando e dove voglio, mangiare quando voglio, dormire quando e quanto voglio. 
Venezia è sfumata. 
O meglio, l'idea del viaggio solitario è sfumata.

E fu così che mi ritrovai a Ferrara di Monte Baldo per il ponte del 2 giugno. 
Ormai accolgo con rassegnazione questa cosa che nulla, ma nulla va come avrei voluto che andasse. Ci si abitua anche alla delusione, no?
Non ricordo come ho trovato questo paesino, ma è da Pasqua che tento di andarci: ad un certo punto è diventata una questione di principio.

Non mi importa delle opinioni. 
Le genti non hanno lo stesso bordello emotivo che ho io.
Le genti non stanno passando per un infinito spettro di sfumature della merda. 
Le genti non capiscono che non voglio lanciare provocazioni, fare la diversa, tirarmela o altro. 

La verità è che sto bene solo da sola. 
Mi basto. 
E poi non sono da sola, perché ho un piccolo cucciolo di cagna che mi bussa da dentro la pancia e mi riempie il cuore di una tenerezza di cui non credevo di essere capace. 

Ho portato con me: quattro libri, un pc pieno di film piratati, della frutta preventivamente disinfettata nel bicarbonato, cuffie e un elenco di itinerari da pensionata. 

C'era un cuculo che, insieme al mio bambino, mi teneva compagnia nelle notti insonni. 

C'erano miliardi di sfumature di verde del bosco di cui mi riempivo gli occhi. Mi manca, mi manca da impazzire quella cosa che mentre bevi il caffè al bar, puoi alzare gli occhi e bere tutto quel verde con lo sguardo. Mi mancava un sacco aspirare con forza l'odore del bosco, guardare le farfalle, fissare un ruscello. 

Mi inoltravo nel bosco con i miei libri e le mie mele e mi scioglievo tra le pagine e la contemplazione del nulla, nel silenzio, nel gioco di raggi che penetrano le foglie, in una luminosa sensazione di esistere, di essere me stessa, senza nessuno, senza speranze, senza futuro, senza passato, solo il mio respiro e il mio cosino che mi fa ciao-ciao nella pancia. 

Terminavo le giornate con un bicchiere di vino rosso, sfogliando libri d'arte di cui abbondava l'albergo.

Mi infilavo nella doccia e poi nelle bianche lenzuola del mio monastico lettino singolo, chiudevo gli occhi e vedevo il verde e sorridevo al buio, abbracciavo il mio bambino e sorseggiavo lentamente la mia felicità di cinica sociopatica. 

Devo riuscire a fuggire più spesso. 
Vorrei riuscire a fuggire per sempre.