giovedì 2 settembre 2021

invecchiare

 Invecchiare è anche guardare la figlia m di un’amica, mentre limona il morosino davanti alla fontana e, sorseggiando il vino, chiedersi insieme a sua madre chi dei due spezzerà il cuore dell’altro.

E vorrei tornare indietro nel tempo, per abbracciare la ragazza che ero. Dirle che fa bene farsi spezzare il cuore a sedici anni: ti rende una persona migliore conoscere il dolore straziante di un abbandono o tradimento a quell’età. Ti rende più sensibile, ti permette di pensarci un attimo prima di spezzare il cuore al prossimo o, quanto meno, te ne rende cosciente. Se non hai mai provato questo dolore, è probabile che tu ti prenda gioco di altre persone, senza nemmeno goderne.

Quanto vorrei abbracciare la m di allora. Dirle che la vita è lunga eterna e avrà le sue rivincite e nuovi dolori e altri amori, altre guerre, che tradirà anche lei, che farà del male e che gliene sarà fatto ancora e ne proverà di peggiori e si ricrederà sulla vita, sugli amori, sugli amici, sulla musica, i drink, i locali. E che è giusto, assolutamente giusto spaccarsi la faccia ora. Sbagliare, perdere e vincere. 

Questo deve essere diventare vecchi. Ed è bello cazzo

sabato 31 luglio 2021

V-day

 

Finalmente, dopo lunghe analisi da talk show, la novantaduenne matriarca ha deciso di inocularsi.

Indossate mutande e canottiera buone.

Ravviati quei capelli color melanzana punk.

La si adagia, come una statuetta di sottilissima porcellana, nella nove-giaris.

-          Hai paura?

-          Niente fa più paura di perdere una figlia

E non c’è pathos, non c’è vittimismo, non c’è neanche rabbia.

C’è solo una limpida consapevolezza straziante.

La matriarca novantaduenne è saggia.

Lei lo sa che l’unica paura degna di esistere, è quella di perdere le persone.

Tutto il resto si aggiusta, si ricostruisce, si cicatrizza, si sconfigge, si ignora.

martedì 13 luglio 2021

luoghi da esplorare.

 


Giappone.

Dobbiamo aspettare che io prenda un passaporto.

Intanto metto via i denari.

Misha mi ha regalato un salvadanaio a forma di fungo con chiusura a coccinella. Produzione rumena.

In tre anni ho messo via 170 euro: è stato più facile prendere il passaporto sotto Salvinie.

Portogallo.

Dobbiamo proprio andarci, prova a guardare i biglietti. Ma quando hai le ferie? Non si può chiedere. Vediamo un last minute?

Berlino.

È un posto che hai sempre pensato di voler visitare.

Iran.

Andiamo a vedere dove sono nati i miei bisnonni.

Israele.

Ti sarebbe piaciuto, ma per come si comportano ora, pensare di rimpinguare le loro casse, fa girare i coglioni.

Istanbul.

Facciamo le vacanze invernali dove non fa troppo freddo. Ombrello di Pedrollo sbrindellato in otto secondi. Andiamo a bere una cosa a Capodanno? Ma le lire turche? Un chay alle mele al Guesthouse scalda comunque il cuore. Chaotic, but beautiful.

Cappadocia.

Belli i film che scelgo io.

Sarebbe da andare in Sardegna, né? Nell’entroterra.

Ma tanto, ovunque andiamo, si scatena la bufera di neve o almeno scoppia una bomba o fanno un attentato.

Ci sono ancora mille posti dove vogliamo andare, sei sicura di volere dei figli?

Con noi era bello anche Il Marinaio.

Anche il Dolo.

Anche Puccio Enza.

Anche Il Cavallino.

Anche l’Autogrill.

Anche il kebabbaro.

Con noi era bella anche San Bonifacio.

Siamo invece andati affanculo.

È comunque un posto da esplorare.

E diventa un posto bello anche la Snai senza di noi.


"adesso Joshua capiva perché a Ma-mee era piaciuto tanto quel viaggio: nella luce del tramonto, nel vento forte, l'erba di palude tremava e frustava l'aria, girandosi da una parte all'altra per catturare la luce, passando dal verde al dorato, al rosa, al colore del grano. La vegetazione fremeva piegandosi alla carezza dell'aria che dal golfo soffiava fino al lago, attraversando la stretta lingua di sabbia, erba e pini; tutto scintillava e risplendeva come il viso di Laila, gli occhi di Ma-mee, o un piccolo pitbull tarchiato dalle gambe storte mentre balza in aria - una bellezza del tutto gratuita, qualcosa che chiede di essere adorato solo per il fatto di esistere."

Jesmyn Ward

La linea del sangue

lunedì 5 luglio 2021

sorella.

 

La sensazione di impotenza uccide.

Avevo questa certezza.

Una certezza che da sempre viene ripetuta e consolidata verbalmente nella narrazione dinastica.

Lei è forte. Lei è l’unica sana di mente. Lei è razionale. Lei sa gestire qualsiasi situazione. Lei è della Bilancia, lei soppesa. Eppure lei, la più forte emotivamente, quella che non perde un colpo e non prende mai nulla troppo a cuore, proprio lei, banalmente, è la più devastata da questa perdita.

Nessuno di noi, con tutta la buona volontà, riuscirà a colmare il vuoto. Nessuno riuscirà ad alleggerire il dolore della perdita di una mamma così figa. Lei si fissa con delle cose sciocche. Ripete, ripete e ripete la stessa cosa centinaia di volte. Si sveglia tremando e non sapendo dove si trova, si sente in colpa con le figlie che non riesce a cagare, esplode di rabbia e lacrime per un oggetto spostato. L’idea di comprare un biglietto aereo, un gesto quasi quotidiano, per lei diventa un’azione inaffrontabile. Non riesce a riconnettersi con la realtà, con la sua routine. E io non posso fare niente. Posso chiamarla, raccontarle i cazzi miei, posso distrarla, farla ridere, posso anche volare da lei, baciarle le mani e le palpebre, cullarla fino a farla addormentare, ma non sarò mai la sua mamma. Continuo a pensare che, forse, non bisogna costruire rapporti troppo profondi con nessuno. Bisogna costruirsi una bolla di vetro, dove le cose non penetrano, dove i sentimenti non sono troppo forti, dove la mamma non sa di che colore era lo stronzo che hai prodotto oggi, non sa chi sono i tuoi colleghi, non sa se tuo marito sa farti venire, non conosce ogni millimetro di sviluppo delle tue bambine, non sa cosa hai mangiato oggi e non sceglie insieme a te il vestito da mettere alla riunione di domani. Una mamma che non ti invade, irritandoti, con i suoi infiniti consigli sulla sistemazione di mobili, il colore delle tende, le scelte educative delle bambine, la macchina da comprare. Serve una mamma che stia bene o che muoia ad un certo punto, senza però lasciarti paralizzata in un mondo che perde il suo colore più vivace. Ira era così. Era presente ovunque, in gesti quotidiani, nelle scelte grosse, nelle scelte piccole, nelle paranoie, ipocondrie, litigi, risate. Risate. Ci ha regalato troppe risate per pensare di togliercele così di botto. Ci ha regalato troppo del suo odore per scomparire così improvvisamente.

Ho sempre odiato la guerra. La guerra, per me, era il peggiore dei nemici. Quella che toglie le persone amate senza permesso, quella che distrugge la casa, porta via i progetti vita. Ora, credo di odiare di più il tumore. È stato più devastante della guerra, più meschino, più subdolo, più figlio di puttana. Non esiste una giustizia universale, ok. Non esiste un dio buono, il dio amore, il dio misericordioso. Non esiste nulla, che non sia un fottutissimo caso che ti porta via grosse fette di vita, strappandole insieme alla carne, al cuore, al poco spirito che hai.

Vinceremo il dolore prendendoci per mano? Sarà sufficiente? Abbiamo vinto guerre, nostalgie, chemioterapie, separazioni, tradimenti, abbandoni, bugie, ma vinceremo contro la morte della più figa delle persone?

martedì 22 giugno 2021

paure da far volare via

Il giorno più lungo dell’anno.

Lungo eterno.

Martedì è il giorno più insopportabile della settimana.

Ogni martedì è un cazzo di solstizio, non finisce mai. Si ha davanti ancora tutta una settimana di porchidii, di ufficio grigio, di gente ipocrita, di produrre-lavorare-subire.

C’è una luce fantastica adesso, hai visto? Quella che inonda d’oro alberi, case e macchine. Mi mandi una foto di quello che vedi? Io sono a Palazzina, mi hanno anche tagliato la palma da sotto il poggiolo.

Paure da far volare via.

Se facessi volare via le paure, non rimarrebbe nulla di me. Volerei in un inceneritore. Evaporerei insieme alle mie paure, perché è della loro sostanza che sono fatta, altro che stelle, sogni o sa il cazzo quale altra trovata pubblicitaria. Io sono fatta di paure.

Paura dei volatili

Paura di perdere le persone

Paura di deludere le persone

Paura di non essere all’altezza

Paura di sprecare il tempo

Paura di non essere utile a nessuno

Paura di infastidire

Paura di immettermi in autostrada

Paura di dire quello che penso davvero

Paura di fare quello che vorrei fare davvero

A forza di aver paura, ho smesso di volere.

Mi sono svuotata di sogni e speranze.

Perdo il contatto, sento le voci distanti, non sento.

Sono nel mezzo del cammino, che però più che un cammino è un girare in cerchio, senza mai riuscire a spezzarlo. Paura di spezzare il cerchio. Un disagio che diventa confortevole.

Vorrei prendere tutte queste paure, incenerirle insieme a lei, mettermi il mucchietto sul palmo della mano e soffiare forte. Far volare via tutto. Smettere di aver paura. Liberarmi dai demoni, assorbire questa torbida luce infinita.

L’unico posto in cui non ho paura è questo mio piccolo cubicolo sgangherato. Il mio cerchio magico protetto. The magic circle. Fino a qualche anno fa era il mio letto a casa. Ora non c’è più il letto e la casa è diventata un fantasma. Svuotata, screpolata, impregnata di odore d’urina stantia. Il mio spazio sicuro è scomparso. Ora è qui. In questa squallida periferia cementificata, in mezzo a sconosciuti, riconosco solo l’abbraccio del mio appartamento. È così difficile comprendere questo bisogno di casa? Si vede di sì. Il desiderio di mantenere le proprie posizioni è sicuramente più importante del bisogno di creare un luogo sicuro per un’altra persona. È giusto così. È più sano così. Prima di tutto i propri bisogni.

Stupida

Stupida

Stupida

Prima i tuoi bisogni e poi il resto…

È così che deve essere, perché io non ci riesco?




"Per quanto con l'abitudine avesse imparato a memoria i contorni della casa ormai da tempo, la rassicurava comunque sentire il pavimento sotto i piedi mentre si muoveva da una stanza all'altra, sapere che la casa era una realtà precisa, con tante sfaccettature, anche se lei vedeva tutto come se fosse sott'acqua a occhi aperti. Quando si era accora di avere la vista offuscata era stato quello il suo primo pensiero, di avere un eccesso d'acqua negli occhi: lacrime, forse. Erano cose che succedevano ai vecchi. Il giorno dopo, al suo risveglio, era ancora lì: una membrana acquosa. Impaurita, si era rifiutata di accettarlo. Aveva pregato e aspettato, finché una mattina si era svegliata e le cose avevano perso i loto contorni. Era annegata. Ma-mee andò in cucina strascicando i piedi, un po' come se pattinasse: moquette, legno del corridoio, moquette ruvida del soggiorno, le piastrelle irregolari della cucina."

La linea del sangue

JW

domenica 23 maggio 2021

volver

 Ora bisogna proprio tornare.

Tornare a svegliarsi la mattina, rimandando la sveglia almeno 4 volte e bestemmiando il Signore.

Infilarsi dei vestiti, smerdarsi qualche malta in faccia per apparire meno verde, mettere in moto il canarino, ascoltare il Trio Medusa, bestemmiare il Signore perché i semafori sono cronicamente rossi. Bestemmiare il Signore, perché sono in ritardo e non trovo parcheggio. Timbrare. Entrare. Sorridere. Rispondere a domande sul perché sono scomparsa per più di un mese. Spiegare o glissare, a seconda dell’interlocutore. Immergersi in telefonate, in accenti veneti di varie provenienze, in accenti spagnoli di varie provenienze, in ipocrisie, falsità, nel meccanismo del produrre-produrre-produrre.

Le giornate si allungano, i bar sono di nuovo aperti, ho un sacco di persone da rivedere, un sacco di cose da fare.

Ma come sarà?

Come sarà non potersi telefonare per qualsiasi cazzata, non ricevere video in pieno stile “vecchia zia scopre whatsapp”, non ricevere messaggi in skype con domande sulla traduzione, non dover fare traduzioni di deleghe di merda, non sentirsi sgridare, consigliare, insultare, non sentire la squillante risata infantile interrotta dalla tosse. Come sarà?

Non saranno troppe le perdite?

Devo ancora riempire un vuoto e nel mentre se ne crea un altro.

La vita, molto banalmente, va avanti e io rido ancora, sembra paradossale, ma rido. Ho questo nodo stretto in gola, una pallina di merda cristallizzata dalle parti del pomo d’Adamo, eppure rido.

Alice ha compiuto tre anni e ha ricevuto i regalini di una nonna che non c’è più. Forse sarà così anche per me, riceverò i suoi regalini per il resto della mia squallida esistenza. La conosco talmente bene che sono in grado di costruire esattamente le sue reazioni, risposte, tonalità di voce. È che non è così bello come sentirla. Ormai sono un’esperta nel parlare con gli assenti. Faccio dei lunghi dialoghi, litigo, rido e sto anche solo in silenzio, immaginandomi accanto a chi non c’è più. O chi c’è ancora tra i vivi, ma non più accanto a me. In fondo cosa cambia? È un pensiero decisamente macabro, ma sapere che una persona è in vita, ma ormai non è più parte della mia vita, provoca la stessa sensazione di assenza e nostalgia troia. Certo, è bello saperla viva, ma, egoisticamente, a me, quest’assenza fa esattamente lo stesso male.

Che brutta doppietta, perdere pezzi così in fretta.

Non sono pronta.

Non sarei mai stata pronta.

Non si riesce ad essere pronti ad una perdita, per quanto preannunciata.

Riprendere una matitina mangiucchiata e ricominciare a ridisegnare il mondo che, già faceva parecchio cagare, ora mi sta raggiungendo un livello di sciattezza veramente alto.

perdincibaccoporcodio.

mercoledì 5 maggio 2021

cronaca di una morte annunciata

Vent’anni di attesa.

Vent’anni a tremare a ogni visita, ogni chemio, ogni peggioramento.

I medici dicevano che era un miracolo: metastasi ovunque e questa ragazza esile reggeva ogni colpo. Mai una lagna, mai un lamento, mai una giornata NO, come spesso succede ai malati condannati a morte. Lo vedevo, vedevo le piaghe aprirsi sulle sue mani e i piedi, vedevo la perdita di capelli e unghie, questa tosse soffocante, diarrea, perdita di gusto e olfatto, dolore alle ossa e fiato corto. Un’agonia durata vent’anni. Eppure era piena di vita fino a un mese fa. Era presente in ogni momento, con commenti caustici, giudizi, indicazioni, grasse risate, il lavoro che mi ha insegnato, le volte che mi sgridava con disperazione. Si arrabbiava se non ero felice, lo pretendeva, glielo dovevamo noi tutti: essere felici per lei, per dare un senso alla sua infinita sofferenza, al dover guardare in faccia la morte, ogni giorno.

Avrei voluto rivederla viva per un’ultima volta. Inspirare il suo profumo di madre, migliore amica e cagacazzi. Avrei voluto accarezzare il suo corpo martoriato, guardare nei suoi limpidi occhi. E invece c’è stata solo una telefonata, conclusa con un “dai, ci sentiamo: soffoco e non riesco a parlare a lungo”.

Abbiamo parlato per più di un anno di questa tragedia mondiale, ho avuto il cuore spezzato all’idea di nonnetti che morivano soli e spaesati in anonimi ospedali. Poi, quando succede a qualcuno che adori, il tutto diventa completamente nuovo. Non esiste un modo per prepararsi o per accettare. A me non riesce. Non riesco ad accettare che sia morta sola in un ospedale. Sono circondata dai suoi oggetti, infiniti regalini per i quali la sgridavo, perché non servivano, perché non ne avevo bisogno. Asciugamani, calzini, utensili per la cucina, biancheria, creme. E adesso li guardo e non riesco a buttare via niente. La immagino, mentre andava a comprarli, con quella sua andatura da airone, ingobbita, sempre spettinata, con una sigaretta tra i denti. La immagino, mentre batte istericamente sui tasti, traducendo cose intraducibili. Era in grado di tradurre, parlare al telefono, fumare e ridere contemporaneamente. Com’è possibile che una persona così piena di vita scompaia? Per un cazzo di virus, perdio. Dopo aver lottato vent’anni contro un tumore, una non può andarsene per un’influenza, dai cazzo, non è giusto.

Eppure, è come avrebbe voluto lei. Non avrebbe voluto nessuno intorno, non avrebbe voluto che noi pulissimo la sua merda, non avrebbe voluto che la vedessimo soffocare, non avrebbe voluto un’agonia lunga mesi. Ha preso e se n’è morta in due settimane. È proprio nel suo stile, maledetta babbiona.

 

“Se esci dall’ospedale, smetto di fumare”, ma non intendevo uscirne sottoforma di cenere.

Non riesco a placcare la rabbia e la nostalgia.

Mi rifugio in una storia inventata, dove lei è semplicemente scappata. Dove non è vero che è andata all’ospedale, è morta e l’hanno bruciata. Una storia dove, ha avuto una remissione, ha preso i suoi stracci e se n’è andata dai suoi adorati arabi, dove legge Le Mille e Una Notte, se ne sta stravaccata sui cuscini a fumare il narghilè, a mangiare pezzettini di pakhlava e bere il vino di melograno. È scappata da tutti noi che le raccontavamo tutti i nostri cazzi, dove doveva preoccuparsi per il mio cuore spezzato, per la dermatite della Eiffel, per la stitichezza di Tedo, per le nostre mille peripezie, per la nonna, la madre, il marito, gli amici. Dove si è stufata di essere la grande urna dove tutti depositavamo le nostre tristezze e difficoltà, che lei percepiva come un affronto personale. Era come una ferita aperta e ogni nostro scazzo le provocava un sanguinamento. Mi piace pensare che, dopo una vita di totale dedizione fisica e mentale a noi quattro, abbia deciso di lasciarci e andarsene dove nessuno le avrebbe più massacrato il sistema nervoso e dove avrebbe potuto vivere libera da questo enorme amore.


domenica 21 marzo 2021

lampadina spenta

 

Strano, no? 

Ami un uomo. 

Lo ami tutto. 

Ami le sue idee, la sua voce, ami i suoi pallidi piedi sturzellati, i suoi polpacci da vichingo che proseguono in alto con delle coscette ciccione che si incontrano verso l'inguine creando fastidiosi attriti con mutande e pantaloni. 

Ami i suoi bianchi maniglioni antipanico, quell'assurda distribuzione dei peli sul petto: ché, non s'è mai visto un uomo con peli a chiazze. 

Ami le sue spalle larghe e il modo in cui le muove con disinvolta cazzutaggine, quando cammina. 

Ami il suo collo, leggermente raggrinzito ormai, che emana una gamma di odori ben classificati: dall'odore da sonno, all'odore di falegnameria, all'odore di Davidoff, all'odore sudato, all'odore del peccato post coito. 

Ami i suoi capelli, tagliati da marines sbronzo, da bimbo minchia, arruffati e leggermente brizzolati, ami anche la piazzola di calvizie che va arrogantemente formandosi. 

Ami le sue mani ruvide, utili a fare lo scrub e un milione di altre cosacce. 

Ami le sue idee radicali, le sue utopie, la sua rabbia contro il sistema, la sua patologica onestà, il suo essere autistico, la sensazione di tenerezza e angoscia che trasmette, quando inizia a dondolarsi nel letto. 

Lo ami anche mentre litigate, anche mentre gli fai docce di veleno, risentimento, delusione e rimproveri. 

Ami la sua luce, ami la luce che accende dentro di te. 

Ami le sue carbonare, ami la domanda dopo cena: "vuoi il caffè?" ripetuta ogni volta, per anni. 

Ami i suoi messaggi vocali con quella voce che ti genera in testa pensieri poco ortodossi. 

Ami praticargli delle cose poco ortodosse, anche dopo anni. 

Ami le sue manie. 
Lo trovi arrappante anche quando piscia da seduto o quando si mette la calza da vena varicosa.
O quando se ne esce con quella tutina da bici inaffrontabile con il bonus dello straccio da cucina intorno al collo
Lo scoperesti a sangue anche allora.

Succede. 

Raramente, ma succede di trovare una persona così. 

Raramente succede che di una persona non ti faccia schifo nemmeno la sua merda. 

Raramente succede che una persona ti susciti rispetto e orgoglio anche quando la prima cotta è passata. Raramente succede che una persona riesca a farti ridere esattamente nel modo in cui hai bisogno di ridere. 

Raramente una persona sa farti sentire desiderata anche quando sei oggettivamente sciatta e imbruttita dal preciclo. 

Raramente, ma succede. 

Succede poi che lo stesso uomo che ami così e in un milione di altri modi, che ti ama e ti avvolge nella sua premura, come fosse una coperta calda, riesca ad ucciderti.

Con metodo, perseveranza, giorno dopo giorno, negandosi, distruggendo i tuoi sogni e le tue speranze. Nascondendosi da te, fuggendo dalla vostra vita, chiudendo le porte, socchiudendole per poi sbattertele di nuovo in faccia. Dimenticando i tuoi dolori, dimenticando anche i suoi. Mettendo al primo posto tutto il resto, procrastinando fino all’infinito. Smorzando qualsiasi entusiasmo, facendoti sentire sbagliata, mediocre, squallida, ridicola.

Ignora la parte più complicata di te. 

Ama solo la parte scema, divertente, sarcastica, maiala, ma non riesce ad amare e provare a salvare la parte più difficile della bambina vulnerabile e sola. 

Non lo fa. 

Non ci riesce. 

Non vuole. 

Preferisce andare a fare la legna, abbandonarti sola nella sua casa, mentre risolve cose più risolvibili. 



Ti ritrovi poi a non capire e continuare a farti la stessa domanda da mesi, da anni: come è possibile che una cosa così grande venga buttata via?

Cerchi una definizione: sarà egoismo? Paura? Pigrizia? Sarà che ti ama solo a pezzi, senza volerti concedere di entrare nella sua vita? Fiumi di parole, lacrime, urla, bestemmie e nessuna risposta. Vorresti almeno avere una risposta, anche crudele. Un NO, NON TI HO VOLUTO. E invece è un TI HO VOLUTO, MA NON A SUFFICIENZA. E senti di nuovo le lacrime salire… allora era tutto finto?

E piangi di nuovo, piangi e sbatti la testa, perché sembra un peccato mortale togliere al mondo quello che eravate, togliere a voi, quello che eravate, quello che potevate essere, dei sessantenni che si prendono in giro e si danno i morsetti sul culo a vicenda. E ti incazzi, perché anche i ricordi svaniranno e rimarrà solo una cosa lontana, bella sì, ma lontana con ormai nessuna connessione alla realtà. Non avrai più quella piccola lampadina accesa di orgoglio, perché hai il ragazzo migliore al mondo. Il più giusto, il più premuroso, il più buono, il migliore a letto, il migliore in cucina e che sapeva calmarti con un abbraccio.

Lampadina spenta.

Sigaretta accesa.

giovedì 21 gennaio 2021

21

 Oggi è il ventunesimo giorno del ventunesimo anno del ventunesimo secolo. Ore ventuno.

Dicono di esprimere i desideri, oggi.

Ho la febbre, gente attorno a me in paranoia perché potrei avere il C19, questo maledetto figlio di puttana, a cui mi piace dare la colpa di tutti i miei guai.

Ho la febbre, ma bevo vino. Vino rosso che mi tinge i pensieri e i denti.

Esco sul balcone  a fumare una sigaretta, guardo il cielo e penso ai desideri che potrei avere.

Il primo, inconsapevole, stupido, non formulato desiderio è stato: “voglio vedere il mio ale”.

Poi mi sono ripresa: sono stata io a lasciarlo, sarebbe una presa per il culo, anche per il ventunesimo giorno, esprimere un simile desiderio. È una presa per il culo essere così perdutamente innamorata del ragazzo che mi ha spezzato la vita? Lo è.

Ho un sacco di desideri.

Tipo la pace nel mondo.

La guarigione dal disastro ambientale.

La salute delle persone più care.

Una maternità felice.

Un lavoro soddisfacente.

La pace dei sensi.

Ma il vero desiderio, quello che è nato dalle viscere, prima di chiedere alla razionalità di formularne uno, è quello di un suo abbraccio, del suo odore, della sensazione di pienezza, completezza, della luce che accendeva. Non è un desiderio giusto da mettere nel taccuino delle stelle per l’anno appena iniziato. È un desiderio che deve appartenere al passato, che non può più materializzarsi. È un ricordo che devo imparare ad amare in quanto tale: “non saremo più l’ale e la mariam”, come ha detto lui quell’ultima domenica pomeriggio.

Voglio però essere onesta almeno con me stessa. Non mi importa un cazzo di nessun altro desiderio razionale, se mi manca la base. E la base era la nostra magia. Me ne sono resa conto troppo tardi. Vedrò di alzare il mento e scornarmi con questo e tutti gli altri anni a venire, ignorando i desideri nati da sotto le scapole e con la consapevolezza che Jasmyn Ward me l’ha presentata lui.

lo schifo al cazzo

Non ricordo quasi nulla dell’anno scorso.

È così un po’ per tutti, immagino.

I tempi si sono dilatati e faccio una fatica bestiale a collocare un evento: non ricordo mai se era l’anno scorso o due anni fa o se magari non è mai successo.

Le uniche immagini sono quelle della scorsa estate, forse.

Una settimana di isolamento fiduciario, dove potevo permettermi il lusso di aspettare il mio ragazzo a casa.

Avevo un branco di stambecchi impazziti nello stomaco dalla felicità.

Sarà anche banale, mediocre, cliché, ma mi sbrodolavo all’idea di aspettarlo a casa per pranzo. Preparare la moka per risparmiare tempo, limonarlo pornograficamente prima che andasse via e beccarmi un suo ultimo sguardo luminoso e complice, prima che infilasse tutto quel suo corpo enorme nella macchina.

Mi viene schifo al cazzo al pensiero di quanto tempo ho passato sognando queste cose… queste stronzate tipo aspettarlo a casa, tipo avere una casa insieme, dove tutte le cose sono nostre, dove abbiamo pensato a tutto noi, dove tutto respira la nostra aria, dove avrei voluto rifugiarmi e ignorare i miei demoni. Mi viene schifo a pensare che tutto quello che per me era bellissimo, per lui era una rottura di coglioni che andava a ledere il suo approccio alla vita, dove non ci doveva essere spazio per queste sciocchezze. Non si capisce bene perché, forse solo perché tutti avevano questa cosa e lui non voleva assolutamente farne parte. Io invece non l’avevo mai avuta questa cosa di avere una casa insieme, un posto sicuro dove aspettarlo, dove mi avrebbe aspettato, dove potevo permettermi di essere libera.

e così, l’anno scorso mi ha regalato qualche giorno di finto idillio.

Un micro viaggio a Trieste che ora non saprei se definire bello o brutto. Bello e anche brutto. Ero già in ebollizione, avevo già il cervello putrefatto dalla delusione, dalla stanchezza emotiva, stavo già covando l’esplosione che sarebbe arrivata.

Una settimana di ferie, anche quella ormai avvelenata.

Eppure c’è stata, sembra passata una vita.

Eppure è l’ultima estate che abbiamo passato insieme.

Chissà come sarà la prossima.

Mi viene schifo al cazzo, quando penso che ci sarà un’estate senza…


martedì 19 gennaio 2021

Dilemma

cosa fare dello spazzolino, praticamente nuovo, biodegradabile, acquistato con tanto amore? Mi si spezza il cuore a declassarlo come spazzolino da pulizia dei sanitari. Non voglio che lo spazzolino (quasi nuovo) del mio ciccione, pulisca le incrostazioni del box doccia.

 Quindi? Quindi l'ho bollito (come se avessi paura dei suoi germi, che comunque saranno deceduti da settembre ad oggi) e lo uso per lavarmi i denti in ufficio. Ho pensato che, se faccio così, in ufficio, di corsa, in pausa pranzo, non mi verrà da piangere e non penserò tutte le volte al momento in cui l'ha guardato con quel suo attento occhio, dicendo "figo! grazie ciccia!".

Balle!

 Mi viene da piangere lo stesso. 

Maledetto istinto ecologista del cazzo, che mi fa venire i lacrimoni nel dopo pranzo.