mercoledì 5 maggio 2021

cronaca di una morte annunciata

Vent’anni di attesa.

Vent’anni a tremare a ogni visita, ogni chemio, ogni peggioramento.

I medici dicevano che era un miracolo: metastasi ovunque e questa ragazza esile reggeva ogni colpo. Mai una lagna, mai un lamento, mai una giornata NO, come spesso succede ai malati condannati a morte. Lo vedevo, vedevo le piaghe aprirsi sulle sue mani e i piedi, vedevo la perdita di capelli e unghie, questa tosse soffocante, diarrea, perdita di gusto e olfatto, dolore alle ossa e fiato corto. Un’agonia durata vent’anni. Eppure era piena di vita fino a un mese fa. Era presente in ogni momento, con commenti caustici, giudizi, indicazioni, grasse risate, il lavoro che mi ha insegnato, le volte che mi sgridava con disperazione. Si arrabbiava se non ero felice, lo pretendeva, glielo dovevamo noi tutti: essere felici per lei, per dare un senso alla sua infinita sofferenza, al dover guardare in faccia la morte, ogni giorno.

Avrei voluto rivederla viva per un’ultima volta. Inspirare il suo profumo di madre, migliore amica e cagacazzi. Avrei voluto accarezzare il suo corpo martoriato, guardare nei suoi limpidi occhi. E invece c’è stata solo una telefonata, conclusa con un “dai, ci sentiamo: soffoco e non riesco a parlare a lungo”.

Abbiamo parlato per più di un anno di questa tragedia mondiale, ho avuto il cuore spezzato all’idea di nonnetti che morivano soli e spaesati in anonimi ospedali. Poi, quando succede a qualcuno che adori, il tutto diventa completamente nuovo. Non esiste un modo per prepararsi o per accettare. A me non riesce. Non riesco ad accettare che sia morta sola in un ospedale. Sono circondata dai suoi oggetti, infiniti regalini per i quali la sgridavo, perché non servivano, perché non ne avevo bisogno. Asciugamani, calzini, utensili per la cucina, biancheria, creme. E adesso li guardo e non riesco a buttare via niente. La immagino, mentre andava a comprarli, con quella sua andatura da airone, ingobbita, sempre spettinata, con una sigaretta tra i denti. La immagino, mentre batte istericamente sui tasti, traducendo cose intraducibili. Era in grado di tradurre, parlare al telefono, fumare e ridere contemporaneamente. Com’è possibile che una persona così piena di vita scompaia? Per un cazzo di virus, perdio. Dopo aver lottato vent’anni contro un tumore, una non può andarsene per un’influenza, dai cazzo, non è giusto.

Eppure, è come avrebbe voluto lei. Non avrebbe voluto nessuno intorno, non avrebbe voluto che noi pulissimo la sua merda, non avrebbe voluto che la vedessimo soffocare, non avrebbe voluto un’agonia lunga mesi. Ha preso e se n’è morta in due settimane. È proprio nel suo stile, maledetta babbiona.

 

“Se esci dall’ospedale, smetto di fumare”, ma non intendevo uscirne sottoforma di cenere.

Non riesco a placcare la rabbia e la nostalgia.

Mi rifugio in una storia inventata, dove lei è semplicemente scappata. Dove non è vero che è andata all’ospedale, è morta e l’hanno bruciata. Una storia dove, ha avuto una remissione, ha preso i suoi stracci e se n’è andata dai suoi adorati arabi, dove legge Le Mille e Una Notte, se ne sta stravaccata sui cuscini a fumare il narghilè, a mangiare pezzettini di pakhlava e bere il vino di melograno. È scappata da tutti noi che le raccontavamo tutti i nostri cazzi, dove doveva preoccuparsi per il mio cuore spezzato, per la dermatite della Eiffel, per la stitichezza di Tedo, per le nostre mille peripezie, per la nonna, la madre, il marito, gli amici. Dove si è stufata di essere la grande urna dove tutti depositavamo le nostre tristezze e difficoltà, che lei percepiva come un affronto personale. Era come una ferita aperta e ogni nostro scazzo le provocava un sanguinamento. Mi piace pensare che, dopo una vita di totale dedizione fisica e mentale a noi quattro, abbia deciso di lasciarci e andarsene dove nessuno le avrebbe più massacrato il sistema nervoso e dove avrebbe potuto vivere libera da questo enorme amore.


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