giovedì 31 dicembre 2020

31.12

 Io quest’anno non ho visto la neve. Si può vivere anche senza, no? Si può vivere anche senza il mio grassone e quindi anche senza la neve, senza la mamma, senza abbracci, senza sentirsi a casa, senza sogni, senza paure, senza. Si può. Sono ancora viva.

Sopravvivo per inerzia.

martedì 29 dicembre 2020

e per fortuna che non è un mese da 31 giorni

 

Questo stupido continuo contare.

Un mese senza vederci.

Strano no?

È tutto strano.

Quante risate risparmiate!

Quanti abbracci risparmiati!

Quanti momenti su quel divano scivoloso!

Quante declamazioni dell’Oltreuomo!

Quanti “dammi un bacino, dai”

Quanti “Mi alzi, ciccio?”

Sono ricchissima, io! Sto risparmiando un sacco.

Ho la colonna vertebrale schiacciata: chi è che mi alza, adesso?

Ho la colonna vertebrale schiacciata da questo mondo, che devo affrontare da sola.

L’ho voluto io, no?

“L’hai lasciato, che auguri ti aspettavi?”

L’ho voluto io.

Questo silenzio.

Questa nostalgia.

Questo “tanti auguri!!” che quasi non ti conosco.

Questo Natale del cazzo e le foto della grande neve che non mi sono arrivate.

Fai la cacca e a nessuno interessa che faccia fai nel mentre...

Devastante.

martedì 22 dicembre 2020

di nuovo

Quand’è che passa la nausea da nostalgia? 

Quand’è che finisce questa pentola di merda che mi devo mangiare a piccole cucchiaiate? 

Quando smette di farmi male in fondo alla gola? 

Quando smetterò di riascoltare messaggi vocali con bacini a schiocco e piangermi addosso come una vecchia rammollita del cazzo? 

23 giorni di assenza. 

Ho passato mille mila anni a sentire questi bacini a schiocco quasi ogni giorno.

E proprio non riesco a capire come possa essere che un amore così grande svanisca nel nulla. 

Non riesco, non voglio credere che sia possibile.

Non voglio che la vita sia così e che serva andare avanti. 

Come cazzo si fa?

Entro

Esco

Rido

Leggo

Mangio

Mi preoccupo di cose

Comunico

ma sono svuotata di senso 

quand'è che finisce questa nausea?

giovedì 19 novembre 2020

Dipanare la nebbia.

Sono distrutta dall’idea di non aver capito un cazzo in trentatré anni.

Mi sento sola.

Mi sento abbandonata.

Mi sento vuota. 

Nuoto in una piscina di vomito e mi rendo conto che la bambina dentro di me è stata di nuovo schiaffeggiata. La bambina che ero, con occhi pieni di stelle, con le canzoni in testa e le poesie sulle dita, è stata di nuovo messa in castigo.

Io e i miei sogni siamo di nuovo al punto di partenza. Solo che forse, questa volta, ho capito che i miei sogni non valgono un cazzo. Forse ho sbagliato sogno, forse ho sbagliato persona. E la persona sbagliata sono io. È con me che i sogni non si avverano. Restano eternamente nello spazio tra il collo e il cuscino.

Credere.

Non credere.

È sbagliatissimo riporre le proprie speranze in persone estranee, per quanto questi estranei possano esserti entrati sotto pelle, per quanto ti possa illudere, per quanto possa sembrare che nessun’altro possa entrare più dentro di così, alla fine arriva il momento in cui le bianche nuvole si disperdono, le parole perdono senso e resti da sola. Fumi cento sigarette e fai fuori litri di vino, smetti di mangiare e dormi a scatti, ti risvegli con le lacrime e ti arrabbi. 

Ci sarà un nuovo inizio?

Un’altra volta in cui penserò di essere arrivata a casa, per poi scoprire che la mia casa non esiste.

 

martedì 17 novembre 2020

lunedì 16 novembre 2020

lunedì

Non mi si può lasciare sola un attimo. Tutto il mio esoscheletro si dissolve e diventa una melma lagnosa. Scappo in bagno a piangere e a battere la testa contro la parete di compensato. Com’è possibile che tutto svanisca? Com’è possibile che non esista più? Dov’è  la giustizia? Com’è possibile che tutto questo grande grandissimo gigantesco amore non esista più? Mi sbrodolo a sentire qualsiasi canzone frocia e voglio correre a piedi per affondare la faccia nel suo profumo.

 Dimenticare tutto, ricominciare, ma da dove? Come si fa a ricominciare? Mi sento sbriciolata, come un vecchio biscotto dimenticato. 

giovedì 12 novembre 2020

ciclo

 

Sono passati più di tre anni da quando abbiamo deciso di avere un figlio.

Ok, “abbiamo” è forse esagerato. Io ho deciso e lui ha acconsentito senza alcun entusiasmo e con una grande (quanto appagata) speranza di non avere successo in questa impresa.

Tre anni di calcoli, tre anni di speranza, tre anni di sogni di una bambina dagli occhi grandi della madre, appetito del padre e buffonaggine di entrambi. Ho sognato il suo odore, ho sognato il suo primo sorriso, ho sognato i suoi piedini, ho sognato la domenica mattina con lei nel letto: io, lui e lei. La nostra piccola famiglia piena di porchidii e luce. Ho sognato lui che rientrava a casa e noi che gli correvamo incontro per fargli vedere che bei disegni che avevamo fatto. Ho sognato anche, addirittura, la prima volta che le avrebbero spezzato il cuore e come saremmo stati bravi io e lui a farle sentire la forza del nostro amore e come l’avremmo tirata su a suon di risate. Ho sognato poi i suoi due fratellini gemelli e di nuovo noi tutti nel letto, con lui che muggisce e vuole dormire e noi che ci arrampichiamo sulle sue cicciosità per indispettirlo e lui che brontola, ma sotto-sotto sorride e gli si riempie il cuore per avere intorno tutti questi piccoli cagacazzi capeggiati dalla sua vecchia rana.

Ho fatto un sacco di sogni.

Mi sono addormentata per centinaia di notti con il sorriso e le lacrime.

Ma questa bambina non è mai arrivata.

E noi siamo riusciti ad andare affanculo. Non perché lei non sia arrivata, ma comunque il mio grande sogno è andato affanculo. Strisciando, lentamente, disintegrandosi di giorno in giorno.

Dopo tre anni, sento di nuovo arrivare il ciclo. Puntuale come la maledetta morte. Solo che, questa volta, non sono arrabbiata, frustrata, delusa, distrutta, spezzata, frantumata e polverizzata dalla consapevolezza che, anche questa volta non ce l’abbiamo fatta. Dopo tre anni, sento un’amara sensazione di liberazione dall’aspettativa che mi opprimeva. Per la prima volta, non potevo avere dubbi. Per la prima volta, dopo più di mille notti, ritorno ad avere una connessione con il mio ciclo. Ritorno ad accettare il mio corpo, anche se si è rivelato un terreno arido. Ritorno a me stessa.

È una strana sensazione, quella di non avere più un sogno che ti ammazza ogni mese, che ti lascia in una pozzanghera di lacrime incomprese, lacrime che nessuno ha mai voluto asciugare, lacrime che nessuno ha mai condiviso.

Sono tutte strane queste sensazioni in questo nuovo mondo, che sembra non appartenermi e non avere niente a che fare con me. Non ho più un mio mondo. Il mio mondo è finito. Dovrò ridisegnarlo da zero. Che palle!

domenica 27 settembre 2020

il paradosso della valigia senza manico

 

Esiste in russo “il paradosso della valigia senza manico”: quando la valigia è impossibile da trasportare, ma abbandonarla ci è impossibile. Impossibile perché nella valigia c’è tutta la vita: foto di sorrisi, profumi, ricordi di viaggio, biglietti di concerti, lettere, dischi e altre cianfrusaglie di inestimabile valore.

Mi trovo così. Ferma in mezzo ad una strada impolverata e piena di macchine. Sola. Seduta sulla mia valigia. La mia valigia dove ho accumulato con cura tutta la mia vita, dove ho investito la parte migliore di me (piccola, ma era tutto quello che avevo). Valigia che era la mia casa, la mia famiglia, quella che mi sarei portata ovunque, quella che conteneva il mio mondo. La valigia di cui andavo orgogliosa, che mostravo con fierezza, che credevo robustissima. Il manico era scassato da tempo. Il tempo ha indebolito il manico. L’ha usurato. Ho provato a ricucire, ma sono un disastro nel cucito; mi sono solo riempita le dita di piccole chiazze di sangue. Appeso ormai a dei fili, cercavo di trattenerlo con i denti. Poi si è staccato e mi è rimasto in mano.

Piango, piango e piango. Sembra che sia morto qualcuno. L’ultimo fiume così generoso, in effetti, l’ho generato solo in occasione di una morte. Dicono che piangere sia liberatorio, ma a me viene solo mal di testa, sono esausta, ho la nausea, fatico a respirare, mi brucia la faccia e non risolvo nulla.

Sono al buio.

Vorrei sbattere la testa contro un muro, sperando di togliermi questa sensazione di dosso. Sembra che sia crollato un edificio dentro di me e non trovo un posto sicuro per rifugiarmi.

Ciao, ho trentatré anni e non ho capito un cazzo.