giovedì 19 settembre 2013

1 settembre 1993



Era forse uno degli anni peggiori della crisi. In famiglia. Nel paese. Niente cibo. Niente elettricità, niente gas, niente riscaldamento. Andavamo a dormire vestiti. Mangiavamo riso e patate nel migliore dei casi. 1 settembre 1993. Il mio primo giorno di scuola. Ricordo la camicia bianca con delle spille a forma di fiorellini sull’enorme colletto bianco con i bordi di pizzo. Ricordo la cartella colorata con dei dinosauri. Verde e rosa shock. Il tutto direttamente dalla Libia dove mia zia, allora ancora decisamente sana e piena di energia, lavorava come un mulo per poter mantenere noi e la sua famiglia.
Ricordo mio padre. Le sue labbra umide. Ricordo lui accucciato vicino a me, in ultimo banco con una ragazzina dagli occhi azzurri o verdi, profuga. Tenevo la cartella sulle ginocchia, avevo paura di appenderla sulla sedia perché mio fratello aveva detto che rubano. Le cartelle e quello che c’è dentro. Ricordo lui che diceva di appenderla e io che dicevo che no, che va bene così. Ricordo la maestra con il rossetto sui denti. Faccia compiaciuta di una donna di campagna. Ricordo l’odore della cera per il parquet. Ricordo la finestra dalla quale guardavo. Ero seduta nella fila vicino alle finestre. Ricordo il grumo, a quel tempo ormai abituale. Il grumo in gola che mi ha accompagnata per tutti i giorni dell’asilo. Il grumo dell’abbandono, il grumo della voglia di mia mamma.
20 anni fa andavo a scuola per la prima volta. Sapevo già leggere in due lingue. Abilità considerata quasi geniale dalla maggior parte degli occidentali ma abbastanza normale per i ragazzi della mia città. Ricordo Levan dagli occhi azzurri che ha chiamato la maestra “nonna” e le risate.
La scuola numero 155.
Oh quanto ho imparato nelle varie scuole della mia vita. Quante scuole.
Ricordo la sensazione di inappropriatezza. Di essere fuori luogo. Di essere in un posto dove tutti si sentono a loro agio mentre io vengo fuori da una famiglia disastrata. Con un nonno adorabile ma schizofrenico. Con una nonna pragmatica e antipatica. Con una mamma giovane e abbandonata che piange dalla disperazione.
Ricordo mio fratello che non veniva mai a trovarmi.
Ricordo che probabilmente una volta mi sono rotta le dita o un dito del piede e non riuscivo nemmeno ad alzare il piede dal male, ma non l’ho mai detto a nessuno.
Ricordo il freddo e lo scricchiolio del linoleum giallo della cucina.
Ricordo le piccole piastrelle rosse e gialle del bagno.
Ricordo i pezzettini di giornale ritagliati che usavamo come carta igienica.
Ricordo quando chiamavo il nonno per pulirmi il culo dopo aver cagato.
Ricordo le chewing gum LOVE IS che la mamma ci portava nelle giornate buone e che tagliavamo in due triangolini per me e mio fratello.
Ricordo i tasti freddi del pianoforte.
Ricordo gli esercizi infiniti e l’odore di legno verniciato del pianoforte.
Ricordo i suoni confusi che uscivano da ogni aula della scuola di musica.
Ricordo il negozio in cui la nonna andava a prendere il pane e ricordo il palmo della sua mano con su scritto un numero a tre cifre che indicava il suo posto in fila per il pane.
Ricordo i piccoli cartoncini di razionamento per il pane e per altri cibi.
Ricordo la voce di mio nonno che raccontava aneddoti di un passato remoto alla luce della lampada a cherosene.
Ricordo i pidocchi e le larve perlate che lasciavano nei miei lunghi capelli folti.
Ricordo la sensazione di imbarazzo perché ero sempre vestita con dei vestiti bruttissimi.
Ricordo me stessa con il palmo della mano aperta che indicavo allo specchio i miei 5 anni. 5 anni. Mi sembravano tantissimi.
Ricordo la prima barbie tarocca dai capelli rossi e il vestito rosso con una retina dorata e un fiore bianco sulla scollatura. Proveniente dalla lontana e calda Libia dove tutti stavano bene. La osservavo alla luce di una candela. E l’arrivo della luce elettrica sembrava un miracolo, ma sembrava tutto assolutamente normale, perché non avevo visto altro nella mia vita. Ricordo i diari che scrivevo in georgiano. Le minuziose descrizioni di giornate con quella velata sensazione di rabbia e invidia. L’invidia.  L’invidia per quelli che erano dei georgiani veri e non dovevano vergognarsi perché parlavano in russo a casa. L’invidia per quelli che avevano una famiglia con un papà e una mamma e nessun nonno che ti fa da surrogato. L’invidia per quelli che non dovevano sentirsi in colpa perché andavano in gita. L’invidia per quelli che avevano una famiglia relativamente normale. Per quelli che il fine settimana facevano delle cose divertenti mentre io stavo sempre a casa.
L’invidia.
Che poi si trasforma nell’odio. Ma la maggior parte delle volte tu credi che sia odio ma poi in realtà è sempre invidia. L’odio è invidia. Odi le persone che invidi.

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